Per la Cassazione, se il reclutamento delle pazienti è procacciato scatta il reato ex art. 416 c.p.
di Gioia Fragiotta - Associazione a delinquere per il medico che per circa un biennio ha visitato presso il proprio studio donne nigeriane, reclutate tramite due connazionali, al fine di interrompere la gravidanza. Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 50060/2016, depositata il 24 novembre scorso (e qui sotto allegata), confermando la condanna ex art. 416 commi 1, 2, 3 c.p. a carico del sanitario imputato.

Il medico aveva proposto ricorso contro l'accusa di aver tentato di procurare l'aborto nella quasi totalità di casi sottopostigli (8 su 9) sostenendo la mancata sussistenza dell'elemento soggettivo del reato associativo vista anche l'inesistenza di un programma criminoso che si evince dall'assoluzione da quasi la totalità dei reati-fine.

Diversa, invece, è l'idea della Suprema Corte la quale ha ritenuto che determinate condotte quali telefonate frequenti e ripetute tra il medico ricorrente e i complici nigeriani coimputati, fossero sufficienti a testimoniare "la stabilità dell'accordo, la sua perduranza e le modalità operative, dirette verso connazionali dei coimputati di nazionalità nigeriana, a dimostrazione della specificità dell'area di provenienza dell'utenza ". A suffragare ulteriormente la tesi della Corte vi è la disponibilità dello studio medico utilizzato dal ricorrente che conferisce carattere strutturale all'accordo con i ricorrenti. Oltretutto, ciò è ulteriormente confermato dal fatto che il medico svolgesse la sua attività solo nei confronti delle donne reclutate dai complici. Si riscontra quindi la "sussistenza dell'elemento psicologico del delitto".

In ultimo, sottolineano gli Ermellini, rispetto alla doglianza relativa all'inidoneità (a procurare l'aborto) di una siringa di dimensioni di 5 cm di lunghezza, che il giudice di merito ha condannato il medico, limitatamente all'unico caso accertato dalla polizia a seguito di una irruzione nello studio dello stesso, ossia in presenza di "un riscontro oggettivo in grado di dimostrare, in concreto, che la condotta dell'imputato

avesse superato la soglia degli atti preparatori - e avesse acquisito - i caratteri di univocità ed idoneità richiesti dall'art. 56 c.p.". Negli altri casi, invece, la mancanza di elementi probatori univoci ha portato "all'assoluzione per le imputazioni concernenti i reati-fine". Ad essere incongrua "ed erroneamente calcolata", invece, per i giudici di piazza Cavour che hanno accolto il ricorso solo sullo specifico punto, la pena determinata dalla Corte territoriale poiché ha ignorato le assoluzioni dai reati-fine per i casi non supportati da elementi probatori (8 casi su 9).

gioiafra@hotmail.com

Cassazione, sentenza n. 50060/2016

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