È troppo oneroso e sproporzionato il contributo chiesto agli immigrati per ottenere il permesso di soggiorno

di Lucia Izzo - Eccessivamente oneroso e sproporzionato, nonché irragionevole e discriminatorio, il contributo che gli immigrati in Italia sono costretti a pagare per ottenere il permesso di soggiorno. Tanto si desume dalla sentenza del Consiglio di Stato, terza sezione, n. 7047/2016 (qui sotto allegata) che ha stabilito che le Amministrazioni competenti dovranno rideterminare l'importo dei contributi, nell'esercizio della loro discrezionalità, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all'esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE.


A promuovere la causa innanzi al TAR Lazio sono state, in prima battuta, CGIL e INCA, impugnando il decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011, adottato di concerto con il Ministero dell'Interno e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 304 del 31 dicembre 2011, concernente il «Contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno».


Il decreto oggetto di impugnativa aveva fissato gli oneri contributivi per il rilascio e per il rinnovo dei permessi di soggiorno in una somma variabile da € 80,00 a € 200,00, in base alla durata dei permessi di soggiorno richiesti.


Nel corso del giudizio, il giudice nazionale ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la questione incidentale di compatibilità con il diritto eurounitario della normativa italiana che disciplina la materia dei contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno.


Con la sentenza

del 2 settembre 2015 in C-309/14, il giudice europeo ha affermato che la direttiva n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, osta ad una normativa nazionale, come quella qui controversa, che impone ai cittadini di Paesi terzi, che chiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno nello Stato membro considerato, di pagare un contributo di importo variabile tra € 80,00 ed € 200,00, in quanto tale contributo, nella misura prevista, è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è idoneo a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima.


Di ciò il TAR Lazio ha preso atto, ritenendo la fondatezza del ricorso nella parte in cui ha dedotto la radicale illegittimità dell'imposizione del contributo de quo, che non troverebbe fondamento nella normativa eurounitaria nell'interpretazione datane dalla Corte di Giustizia.


Ne è derivata l'impugnazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Interno e del Ministero dell'Economia e delle Finanze, i quali hanno chiesto, previa sospensione, la riforma del provvedimento e la reiezione del ricorso promosso in primo grado da CGIL ed INCA, ritenendo il difetto di legittimazione attiva in capo a tali associazioni sindacali e l'erroneità dell'interpretazione che il primo giudice ha dato alla sentenza della Corte di Giustizia.


In realtà, per il Consiglio di Stato, va in primo luogo rammentato che, per costante giurisprudenza, le associazioni sindacali sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti, di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto, solo quando venga invocata la violazione di disposizioni poste a tutela della intera categoria, non anche quando si verta su questioni concernenti singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti. 


L'interesse collettivo della associazione sindacale deve identificarsi con l'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con gli interessi dei singoli associati o di gruppi di associati. In pratica, l'associazione sindacale risulta senz'altro titolare di una posizione soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l'interesse dei cittadini stranieri che hanno trovato una più o meno stabile occupazione in Italia, costituendo tale occupazione uno dei presupposti principali per il rilascio dei titoli di soggiorno, e che intendono quali lavoratori stranieri concretizzare la loro aspettativa restando sul territorio dello Stato al fine di poter proseguire nello svolgimento della loro attività di lavoro.


Parimenti sussistente, per le medesime ragioni appena esposte, è la legittimazione attiva in capo all'INCA, quale ente di patronato soggetto alle disposizioni della legge 30 marzo 2001, n. 152, recante la «Nuova disciplina per gli istituti di patronato e di assistenza sociale».


Corretta, prosegue il Consiglio di Stato, anche l'interpretazione della sentenza della CGUE che ha mostrato l'esatta consapevolezza, sulla base del quadro della normativa nazionale correttamente rappresentatole nell'ordinanza di rinvio, che i singoli importi dei contributi non si riferiscono tutti e soltanto al rilascio dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, ma sono ben diversificati in base alla specifica finalità e alla singola tipologia del permesso.


Il giudice europeo li ha valutati tutti unitariamente e complessivamente, secondo un ben chiaro ragionamento di ordine logico-sistematico, rilevando che "l'incidenza economica di un contributo siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest'ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all'importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l'obbligo di versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla summenzionata direttiva".


La Corte di Giustizia ha osservato che ad aggravare tale sistema "contributivo", già di per sé oneroso per molti dei cittadini di Paesi terzi intenzionati a stabilizzare la propria posizione in Italia quale approdo di una situazione esistenziale che, sovente, li vede muovere da una condizione di pressoché totale indigenza o anche solo di grave difficoltà economica nei Paesi di provenienza, si aggiungono gli ulteriori oneri fissi richiesti in Italia per il rilascio e il rinnovo di ogni singolo titolo di soggiorno.


Pertanto, non solo, spiega il Collegio, le amministrazioni competenti dovranno rideterminare l'importo dei contributi con apposito decreto, ma ad esse competerà, secondo i principi dettati dal diritto nazionale ed eurounitario e in sintonia con le competenti istituzioni europee, stabilire an, quando e quomodo degli eventuali rimborsi agli interessati per le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto.

Consiglio di Stato, sent. n. 7047/2016

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