Breve guida alla procedura fallimentare ex legge 267/1942

Avv. Eraldo Quici - Sempre più spesso nella drammatica realtà degli ultimi tempi trova applicazione la procedura del fallimento: contemplata e disciplinata essenzialmente dalla L. 267/42, essa trae origine dall'esigenza di tutelare il creditore nel caso in cui il debitore non sia più in grado di soddisfare le obbligazioni contratte.

Qualora, dunque, il debitore si trovi in una situazione di impossibilità non temporanea a liquidare i propri creditori, questi ultimi possono depositare l'istanza di fallimento al fine di recuperare le somme a loro dovute. Nella prassi, tuttavia, il ricorso al fallimento ha per oggetto i debiti contratti dalle piccole e medie imprese, in quanto per quelli gravanti sulle grandi imprese, si tende ad utilizzare la procedura concorsuale dell'amministrazione controllata. Si evita in tal modo, in riferimento a quelle imprese che hanno un elevato numero di dipendenti, di ricorrere all' autorità giurisdizionale, optando per quella amministrativa, rappresentata dal Ministero delle Attività Produttive.

Presupposto iniziale per il ricorso al fallimento è senza dubbio l'attività svolta dall' impresa debitrice: ai sensi dell'art. 1 della L. Fall., può essere dichiarato fallito solo l'imprenditore che svolge un'attività commerciale. Si esclude, di conseguenza, l'applicabilità dell'istituto de quo agli imprenditori agricoli, (Cass., sent. nr. 17397/2015), ai professionisti che esercitano un'attività intellettuale, e, più in generale, alle persone fisiche. Nella qualificazione di imprenditore

, soccorre senza dubbio la definizione consacrata nell' art. 2082 c.c., secondo la quale è imprenditore colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e di servizi. La procedura fallimentare può trovare applicazione sino ad un anno dalla cessazione dell'attività da parte dell'imprenditore commerciale: assume, dunque, rilevanza in quest'ottica il dies a quo dal quale far decorrere il termine di un anno sopra indicato. La regola generale è quella che fa decorrere un anno dalla data di cessazione dell'attività come risulta dal registro delle imprese. L'art. 10 della L. Fall., tuttavia, in ossequio al principio dell'effettività, prevede un'eccezione a tale regola: è facoltà del P.M. e del creditore dimostrare il momento di effettiva fine dell'attività commerciale. L'eccezione ha valenza solo se l'imprenditore
è una persona singola, mentre se oggetto del fallimento è un "imprenditore collettivo", (ad es. una società), la facoltà citata può essere esperita solo in caso di cessazione d'ufficio di un sodalizio di tipo personale. Il comma secondo dell'art. 1 L. Fall. prevede un'ipotesi di esenzione dal fallimento. Essa si determina, qualora l'imprenditore dimostri l'osservanza di tre parametri: non superare la somma di € 300.000,00 di attivo patrimoniale, quella di € 200.000,00 di ricavi lordi, e quella di € 500.000,00 di esposizione debitoria complessiva. L'esenzione opera solo con il rispetto di tutti e tre i limiti appena citati; l'onus probandi dei medesimi spetta esclusivamente al debitore, come prevede la legge, e come ha sottolineato in particolare la Consulta, (in tal senso rileva la decisione nr. 198/2009 della Corte Costituzionale). Per quanto riguarda i limiti predetti, si fa riferimento ai tre esercizi di bilancio antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento.

Oltre al requisito appena delineato, di natura chiaramente soggettiva, occorre un ulteriore elemento ai fini della configurabilità del fallimento: tale è lo stato d'insolvenza. Solo l'imprenditore commerciale che versa in una situazione acclamata di insolvenza, può essere dichiarato fallito. L'art. 5 della L. Fall. statuisce che lo stato d'insolvenza si manifesta in inadempimenti o in altri fatti esteriori che dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le obbligazioni dallo stesso assunte. Lo stato d'insolvenza si configura in sostanza in una situazione di reale impotenza da parte del debitore a far fronte ai debiti che gravano sul medesimo. La normativa fallimentare del 1942 si discosta sensibilmente dalla concezione di insolvenza, (e, di conseguenza, di fallimento), delineata dal Codice del Commercio del 1882: difatti, il vecchio testo di legge identificava l'insolvenza come una mera inadempienza, e considerava il fallimento come la cessazione dei pagamenti da parte del debitore, (evento, quindi, riconducibile anche alla semplice volontà del debitore di non adempiere più alcuna prestazione).

Lo stato d'insolvenza si può dunque manifestare in inadempimenti o in altri fatti esteriori che provano l'impotenza del debitore a far fronte in modo puntuale alle proprie obbligazioni. E' l'art. 7 della L. Fall. che in primis delinea alcuni fatti sintomi di insolvenza: la chiusura dei locali da parte dell'imprenditore, oppure la sua fuga, la sua latitanza o la sua irreperibilità.

Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta varie volte, delineando diverse ipotesi di insolvenza. Una prima indicazione evidenzia che ai fini della configurabilità dell'insolvenza è necessaria una rappresentazione reale e totale della situazione debitoria del possibile fallito, senza fermarsi, al contrario, a quella prospettata ad opera del creditore istante, (Cass., sent. nr. 16945/2016). Non solo, ma l'insolvenza, per essere elemento fondante il fallimento, deve identificarsi come una forma di impotenza strutturale che impedisce al debitore di poter soddisfare le obbligazioni contratte con il creditore; e la dimostrazione di detto status può essere conferita con i bilanci, con le scritture contabili, nonché con qualsiasi altro mezzo idoneo allo scopo (Cass. Civ., ordinanza nr. 11653/2016).

Anche la preminenza dei passivi sugli attivi può essere indice dello stato d'insolvenza, ma non da sola: sono necessari ulteriori elementi di prova (Cass., sent. nr. 26217/2005). Non solo, ma anche la superiorità degli attivi sui passivi societari può manifestare un indice di possibile insolvenza (Cass. Civ., sent. nr. 2470 del 15/03/1994): spesso, infatti, gran parte delle poste attive sono rappresentate, nella parte del "patrimonio netto" dello stato patrimoniale, da cespiti immobilizzati, (immobili aziendali, macchinari e strumenti occorrenti per la produzione, etc.), che non permettono di avere una liquidità immediatamente disponibile. L'eventuale liquidità che le imprese attive posseggono è quella loro concessa dall' accesso al credito: qualora tale fonte venga per qualsiasi impedita o revocata, si profilerebbe per l'imprenditore l'ipotesi dell'insolvenza. Altresì, sempre nell' analisi dello stato d'insolvenza effettuata in particolare dagli Ermellini, emerge anche l'importante distinzione tra la difficoltà economica momentanea del debitore, e quella temporanea. La prima si manifesta, quando il debitore, incapace di provvedere immediatamente alle proprie scadenze, è tuttavia in grado di reperire i normali mezzi di pagamento entro un ragionevole lasso di tempo, (ad es., nel giro di pochi mesi). Tale ipotesi non delinea uno stato di insolvenza da parte del debitore, bensì una situazione di momentanea difficoltà finanziaria. Il secondo caso, invece, si profila allorché il debitore è sì in grado di trovare gli ordinari strumenti di pagamento, ma non in un ragionevole lasso di tempo, (uno o due anni); si determina così uno stato d'insolvenza da parte del debitore, che può conseguentemente portare alla dichiarazione di fallimento.

E' in genere escluso il requisito obiettivo del fallimento nell' ipotesi del pactum de non petendo, che si configura, quando il debitore raggiunge con i creditori un accordo di ristrutturazione dei propri debiti: tipico è in tal senso il piano di consolidamento che gli istituti di credito raggiungono con i clienti non più in grado di restituire i prestiti in passato ottenuti. La giurisprudenza esclude per tali accordi lo stato d'insolvenza, se gli stessi sono raggiunti con tutti i creditori, oppure con la maggior parte di questi, ma in modo tale che il debitore possa avere a disposizione i mezzi per poter pagare i debiti con i creditori non aderenti. Tra l'altro, possiamo sottolineare come non solo la giurisprudenza, ma anche la legge, tendano a favorire eventuali accordi inter partes, scongiurando così il ricorso alla più lunga e più dispendiosa procedura fallimentare. Soccorre in questa direzione la previsione consacrata nell'art. 182-bis della L. Fall., la quale consente di configurare per tali accordi un riconoscimento formale mediante un'apposita omologazione da parte del Tribunale. Ma aggiungiamo anche lo stesso istituto del concordato preventivo, che, alternativamente al fallimento, permette al debitore ed al creditore di trovare una soluzione più congrua rispetto alle contrapposte esigenze.

Si profila, invece, lo stato d'insolvenza in alcuni casi specifici: qualora il debitore abbia la possibilità di soddisfare le proprie obbligazioni con mezzi non ordinari di pagamento, come, ad es., nel caso della restituzione al fornitore della merce, oppure in quello del conferimento al creditore dei crediti vantati con altri soggetti, (ipotesi di debitore adempiente, ma insolvente). Ancora, si ravvisa lo stato d'insolvenza, quando il debitore dispone di liquidità ordinaria per far fronte alle obbligazioni, ma risulta essere anomalo il modo di reperimento della stessa, (ad es., attraverso il ricorso a prestiti usurari).

Ad ogni modo, gli inadempimenti o gli altri fatti esteriori rappresentato degli indizi che, considerati nel loro insieme, possono ravvisare lo stato d'insolvenza. In quanto tali, questi indizi devono essere gravi, precisi e concordanti al fine di provare la condizione di impotenza strutturale che non permette più all' imprenditore di far fronte regolarmente ai propri debiti. Di conseguenza, tanto più sono numerosi detti indizi, e tanto più stringente sarà il quadro indiziario a favore dell'ipotesi di insolvenza.

La ravvisabilità dello stato d'insolvenza, infine, subisce un temperamento ad opera dell'art. 15 della L. Fall., in forza del quale non si perviene alla dichiarazione di fallimento, se l'istruttoria prefallimentare determina un valore non superiore ad € 30.000,00 di debiti scaduti e non pagati. Di conseguenza, qualora i debiti a breve termine siano inferiori complessivamente ad € 30.000,00, il debitore non può essere dichiarato fallito. L'art. 15 si riferisce solo alle scadenze a breve termine, e non potrebbe essere diversamente: effettuare previsioni a medio e lungo termine sarebbe troppo aleatorio e poco rispondente alla realtà.


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