Una monografia di Arturo Luzi che analizza i rapporti giuridici tra consumatore, professionista e produttore. Disponibile anche in PDF

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Indice: Introduzione - Evoluzione della normativa - Definizioni di consumatore, professionista e produttore - La nullità di protezione nei rapporti di consumo - Conclusioni


Introduzione

Il Codice del Consumo, emanato nel 2005, costituisce un Testo Unico che raccoglie tutta la normativa nazionale a tutela del consumatore.

Esso è stato introdotto con il Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n.206 - entrato in vigore il 23 ottobre 2005 - recante il riassetto della normativa posta a tutela del consumatore, più volte riveduto e corretto dal legislatore, che si compone attualmente di 146 articoli ed è frutto del lavoro della Commissione istituita presso il Ministero dello Sviluppo Economico, in forza della delega contenuta nell'art.7 della Legge 29 luglio 2003 n.229.

L'approvazione del Codice rappresenta una pietra miliare nella tutela dei consumatori, soprattutto per la rilevanza che il nuovo "ordinamento" assume in termini di politica del diritto: prima dell'entrata in vigore del Codice la disciplina dei rapporti di consumo era rimessa alla legislazione di settore emanata in modo disorganizzato, per lo più come recepimento (non sempre adeguatamente meditato) delle direttive comunitarie. Su questo scenario interviene l'opera di riassetto, che assume come filo conduttore le fasi del rapporto di consumo: dalla pubblicità alla corretta informazione, dal contratto

alla sicurezza dei prodotti, fino all'accesso alla giustizia ed alle associazioni rappresentative dei consumatori.

Con l'introduzione dell'art.140 bis (in forza dell'art.2, comma 446 della Legge 24 dicembre 2007 n.244 "Legge finanziaria 2008"), il Codice si è altresì arricchito della "azione di classe" (c.d. class action), ossia della procedura dinanzi al Tribunale finalizzata all'ottenimento del risarcimento del danno in capo a ciascun componente del gruppo di consumatori danneggiati da un medesimo fatto.

Evoluzione della normativa

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Inizialmente, la normativa generale sui contratti del consumatore è stata introdotta nell'ordinamento con la Direttiva del Consiglio delle Comunità Europee n.13 del 5 aprile 1993, con la quale è stato imposto agli Stati membri di adottare una tutela contrattuale minima del consumatore nei confronti del professionista. Inoltre, agli Stati membri è stato prescritto di provvedere a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserimento di clausole vessatorie anche nei contratti dei consumatori.

In esecuzione della Direttiva Comunitaria, la Legge 6 febbraio 1996 n.52 ha dettato la disciplina dei "contratti dei consumatori", inserita nella normativa codicistica dei contratti in generale (art.1469 bis), disciplina poi trasfusa negli articoli 33 e seguenti del citato Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n.206, intitolato "Codice del Consumo".

Definizioni di consumatore, professionista e produttore

Prima di analizzare il profilo della "nullità di protezione", ovvero l'argomento di nostro interesse, è indispensabile descrivere la differenza giuridica, nonché sostanziale, tra il consumatore, il professionista ed il produttore. Tale distinzione ci consente infatti di analizzare nel dettaglio il rapporto giuridico che intercorre tra i diversi soggetti.

L'art.3 del Codice del Consumo ci propone una chiara descrizione di carattere generale di tali soggetti, stabilendo che il consumatore o utente è quella "persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta", mentre per professionista si intende "la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario".

In altri termini, l'imprenditore, il commerciante, l'artigiano ed il libero professionista quando agiscono nell'espletamento della propria attività vanno considerati, agli effetti del Codice del Consumo, quali "professionisti"1; invece, vanno considerati quali "consumatori" i clienti, ossia coloro che agiscono per scopi estranei alla propria attività eventualmente esercitata (e, quindi, ad esempio anche l'imprenditore, il commerciante, l'artigiano ed il professionista che acquistano un bene per uso personale).

Infine per produttore si intende "fatto salvo quanto stabilito nell'articolo 103, comma 1, lettera d), e nell'articolo 115, comma 2-bis, il fabbricante del bene o il fornitore del servizio, o un suo intermediario, nonché l'importatore del bene o del servizio nel territorio dell'Unione Europea o qualsiasi altra persona fisica o giuridica che si presenta come produttore identificando il bene o il servizio con il proprio nome, marchio o altro segno distintivo".

La nullità di protezione nei rapporti di consumo

Per introdurre correttamente il tema della "nullità di protezione" nei rapporti di consumo, occorre analizzare seppur in breve il profilo stesso della nullità, ovvero la più grave delle sanzioni che possono colpire il negozio, elidendo totalmente gli effetti, rendendo vano il tentativo delle parti di dare attuazione ai loro interessi.

Il codice civile all'art.1418 enumera le cause di nullità del contratto, ossia i vizi ritenuti così gravi da determinare una condanna perentoria e irrimediabile di inidoneità dell'atto a produrre gli effetti cui tende. Le cause di nullità contemplate da tale disposizione si possono facilmente ricondurre a tre categorie, ciascuna disciplinata da uno dei tre commi in cui si articola la disposizione codicistica: nullità testuale, nullità strutturale e nullità virtuale.

Un'ulteriore categoria, riconducibile all'istituto della nullità, diffusasi recentemente nella legislazione speciale, è quella della "nullità di protezione", in cui un contratto non è qualificato nullo per ragioni di interesse generale o per contrarietà all'ordine pubblico economico, ma ai fini della tutela di una delle parti. Infatti, una delle caratteristiche della "nullità di protezione" è la deducibilità soltanto ad opera della parte a tutela della quale la nullità è comminata e non già dell'altro contraente.

Tale strumento è quindi impiegato nell'ambito dei "contratti del consumatore". Ad esempio, ciò avviene in relazione alle cosiddette "clausole vessatorie" (abusive) in danno al consumatore, di cui nel dettaglio si parlerà in seguito: proprio per questo l'art.36 del Codice del Consumo è stato opportunamente rubricato "nullità di protezione"2.

La nullità di protezione è il rimedio posto a presidio del contenuto minimo ed inderogabile del contratto del consumatore e volto, innanzitutto, a reagire all'introduzione di clausole abusive, fulminando di inefficacia esclusivamente la parte del regolamento contrattuale o la singola clausola contra legem3.

Sempre a titolo esemplificativo nella disciplina dei contratti bancari e di quelli relativi alla prestazione di servizi finanziari sono state previste delle regole che consentono solo al cliente, e non già alla banca od all'intermediario, di rilevare la nullità del contratto derivante, per esempio, da difetto della forma scritta (art.1325 c.c.).

Prima di iniziare ad analizzare nel dettaglio la norma si ritiene utile richiamare, di seguito, il disposto del citato art.36 (Nullità di protezione):

"1. Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto. 2. Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di: a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un 'omissione del professionista; b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un 'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c) prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto. 3. La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice. 4. Il venditore ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive. 5. E' nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l'applicabilità al contratto di una legislazione di un Paese extracomunitario, abbia l'effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente titolo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato membro dell'Unione Europea".

In prima battuta e da un'attenta analisi emerge chiaramente che l'art.36 ha come scopo la tutela del contraente debole e cioè del consumatore. Nei vari commi si fa riferimento, infatti, a limitazioni di responsabilità, omissioni, adesioni "rischiose". Tali sono, invero, le azioni poste in essere dal professionista o dal produttore ad eventuale danno del consumatore, limitate grazie all'intervento del legislatore.

Le clausole vessatorie

L'art.33 del Codice del Consumo definisce puntualmente le clausole vessatorie nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista considerando come tali quelle che "malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto". Aggiunge inoltre che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che:

"hanno per oggetto, o per effetto, di:

  • escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;

  • escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;

  • escludere o limitare l'opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest'ultimo;

  • prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà;

  • consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere;

  • imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo;

  • riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;

  • consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa;

  • stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione;

l) prevedere l'estensione dell'adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto;

m) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;

n) stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione;

o) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale e' eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto;

p) riservare al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o conferirgli il diritto esclusivo d'interpretare una clausola qualsiasi del contratto";

q) limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità;

r) limitare o escludere l'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento da parte del consumatore;

s) consentire al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest'ultimo;

t) sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria, limitazioni all'adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell'onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;

u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore;

v) prevedere l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del professionista a fronte di un'obbligazione immediatamente efficace del consumatore. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 1355 del codice civile;

v-bis) imporre al consumatore che voglia accedere ad una procedura di risoluzione extragiudiziale delle controversie prevista dal titolo II-bis della parte V, di rivolgersi esclusivamente ad un'unica tipologia di organismi ADR o ad un unico organismo ADR;

v-ter) rendere eccessivamente difficile per il consumatore l'esperimento della procedura di risoluzione extragiudiziale delle controversie prevista dal titolo II-bis della parte V".

Ora, come noto, il codice civile (artt.1341 e 1342) rappresenta la disciplina generale applicabile a qualsiasi tipo di negozio stipulato tra una parte predisponente, qualunque sia la sua qualifica professionale, ed il contraente che vi aderisce, mentre quella dettata dagli artt.33 e seguenti del Codice del Consumo è circoscritta all'ambito di applicazione soggettivo dei contratti tra professionisti e consumatori (c.d. contratti "B2C", Business to Consumer).

Le due discipline, quindi, non si sovrappongono ma finiscono per integrarsi l'un l'altra. Sotto il profilo strettamente pratico, infatti, la presenza di una clausola vessatoria che rientri nel campo di applicazione degli artt.1341 e ss. c.c. soggiacerà alla disciplina codicistica, ben potendo, laddove inerisca sul piano soggettivo all'ambito previsto dal Codice del Consumo, trovare applicazione la disciplina, ben più incisiva, ivi contenuta (la quale, peraltro, per quanto non previsto dallo stesso, rinvia espressamente alle disposizioni del codice civile, ex art.38, come novellato dal Decreto Legislativo n.221/2007).

Comunque, tra le due discipline sussistono elementi comuni e differenziali che certamente meritano di essere evidenziati.

La prima distinzione rileva sul piano "sanzionatorio": mentre le clausole tassativamente elencate nell'art.1341 c.c. e quelle aggiunte nei contratti conclusi mediante moduli o formulari ex art.1342 c.c. sono inefficaci, salvo specifica approvazione per iscritto (cfr. Cass. Civ. 25/03/2010 n.11361), quelle espressamente indicate dagli artt.33 e ss. del Codice del Consumo sono da considerarsi nulle a prescindere da qualsiasi sottoscrizione. Da ciò derivano, peraltro, rilevanti conseguenze che si producono in relazione agli effetti del decorrere del tempo. Configurando infatti la clausola come nulla, non potrà non seguire l'imprescrittibilità dell'azione intesa a farla valere.

Altra differenza è rintracciabile in ordine al profilo della rilevabilità ex officio - di cui nel dettaglio si parlerà nel seguito - testualmente prevista dall'art.36, comma 3, Codice del Consumo e preclusa nella disciplina codicistica.

Inoltre l'art.35 del Decreto Legislativo n.206/2005 introduce il c.d. "principio della trasparenza" delle clausole, che devono essere formulate in modo chiaro e comprensibile, mentre non si rinviene un'analoga disposizione negli artt.1341 e 1342 c.c.

Invece, elemento comune ad entrambe le discipline è la "trattativa individuale" considerata idonea ad escludere il carattere vessatorio delle clausole, in ragione del venir meno dell'unilateralità della predisposizione contrattuale, come espressamente indicato dall'art.34, comma 4, del Codice del Consumo e desumibile altresì dai principi civilistici. Tuttavia, se ciò vale in via generale, non sempre la contrattazione specifica elimina la vessatorietà: l'art.36 del Codice del Consumo esclude, infatti, in ogni caso, l'efficacia delle clausole nelle tre ipotesi nello stesso elencate, ancorché oggetto di trattativa tra le parti.

Infine, vanno evidenziati i rimedi concessi ai consumatori solamente in materia di clausole abusive ex artt.33 e seguenti del Codice del Consumo, i quali, oltre all'azione di accertamento della nullità, hanno a disposizione anche la tutela inibitoria di cui all'art.37, nonché quella amministrativa, affidata all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, di cui al successivo art.37 bis (introdotto dall'art.5, comma 1, del Decreto Legge n.1/2012, convertito in Legge n.27/2012).

Per quanto riguarda, poi, la giurisprudenza si ritiene opportuno segnalare la sentenza Cass. Civ. 03/04/2013 n.8167 riguardante un contratto relativo ad uno strumento finanziario, negoziato fuori dei locali commerciali, con riferimento al quale - posto che l'art.36 del Codice del Consumo esclude l'applicabilità solo della sezione I, capo I, titolo III, parte III del medesimo testo normativo, e non anche della sezione III - si è ritenuta applicabile la disposizione di cui all'art.63 sul foro del consumatore.

La Suprema Corte ivi richiama due principi di diritto consolidati: in primo luogo, afferma che la specifica approvazione per iscritto ai sensi dell'art.1341 c.c. della deroga contrattuale al foro del consumatore è irrilevante ai fini della valutazione di abusività della clausola, dato il rapporto di reciproca indipendenza fra la disciplina generale sulla formazione del contratto e quella di settore sul rapporto di consumo; in secondo luogo, afferma che ai fini dell'esclusione della vessatorietà della clausola di deroga al foro del consumatore non è sufficiente la previsione di un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt.18 e 20 c.p.c.

Nel dettaglio, l'art.63 del Decreto Legislativo n.206/2005 stabilisce la competenza territoriale inderogabile del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore. Ad avviso del giudice di legittimità tale norma introduce un'eccezione rispetto all'art.33, comma 2, lett. u), dello stesso Codice del Consumo, in relazione al quale è invece consentito al professionista vincere la presunzione di vessatorietà della clausola di deroga al foro del consumatore (dimostrando che la clausola è stata oggetto di specifica trattativa individuale). La deroga in violazione dell'art.63 costituisce per la Corte di Cassazione nullità di protezione ai sensi dell'art.36 del medesimo Codice del Consumo. La nullità può essere rilevata d'ufficio, ma opera soltanto a vantaggio del consumatore, come previsto dal comma 3 dell'art.36. Posto che la nullità non può ridondare a scapito del consumatore, deve essere consentito a quest'ultimo, ove lo ravvisi maggiormente rispondente al proprio interesse, adire un giudice territorialmente competente in base ad uno dei criteri posti dagli artt.18, 19 e 20 c.p.c., derogando unilateralmente al foro del consumatore. Questa scelta, precisa la Corte di Cassazione, non scalfisce l'esigenza di tutela contro l'unilaterale predisposizione e imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, che la disciplina prevista dal Codice del Consumo è funzionalmente volta a garantire.

Non ricorre, inoltre, sempre secondo il giudice di legittimità, un interesse generale alla tutela del mercato, tale da giustificare il rilievo d'ufficio della nullità, anche in presenza della deroga imputabile al consumatore. A questo proposito, conclude la sentenza, non può farsi riferimento all'art.143 del Codice del Consumo. ("I diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. È nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice"), norma, fra l'altro, limitata alla mera disciplina pattizia, afferma sempre la Corte.

La rilevabilità d'ufficio

Volendo analizzare ulteriormente il profilo della "nullità di protezione" è opportuno soffermarsi sulla rilevabilità d'ufficio, prevista espressamente dal comma 3 del citato art.36. Il fondamento dogmatico della rilevabilità d'ufficio risiede, secondo la dottrina classica, nell'esigenza di eliminare un atto idoneo a suscitare affidamenti precari, impedendo la formazione di giudicati sulla validità del contratto nullo. Pertanto, tale regola verrebbe a perdere la propria ratio essendi nelle ipotesi in cui la nullità assume natura relativa. Oggi, invece, la dottrina prevalente ritiene che sussista uno stretto legame tra il fondamento sostanziale della comminatoria di nullità, individuato nella lesione di un interesse generale ed il potere del giudice di rilevarne la causa indipendentemente da una richiesta delle parti in tal senso: alla legge preme garantire, in vista di un interesse generale, il rispetto della norma imperativa. Non essendo estraneo alla nullità di protezione il perseguimento di obiettivi che trascendono la tutela della parte debole del rapporto contrattuale, avendo tale forma di nullità anche l'obiettivo di tutelare un interesse di natura generale rappresentato dal processo di creazione e sviluppo del mercato, la soluzione coerente con il sistema resta quella di ammettere la rilevabilità d'ufficio di una nullità che, benché primariamente ispirata alla finalità di protezione di una parte, soddisfa comunque un interesse di carattere pubblico. Se la nullità è disposta a protezione del contraente istituzionalmente debole, sia pure nella veste di esponente di una categoria protetta (consumatore), ne consegue che quest'ultimo sia il solo depositario, ed insieme arbitro, del potere di azionare il rimedio.

Il tema della rilevabilità d'ufficio riveste un ruolo assai importante nella nuova disciplina dei consumi.

In merito, si ritiene opportuno citare l'autorevole intervento della Corte di Giustizia Europea la quale, chiamata a pronunciarsi su questioni pregiudiziali, ha fornito ulteriori chiavi di lettura su aspetti della normativa dei consumi già oggetto della propria giurisprudenza. I margini del potere del giudice, in ordine al rilievo d'ufficio del carattere abusivo della clausola contrattuale, rappresentano il campo d'azione su cui la corte nazionale e quella euro-unitaria si sono confrontati. Nella prima delle due sentenze della Corte di Giustizia in esame, e cioè Corte Giust., 21/02/2013, C-472/11, Banif Plus Bank Zrt c. Csaba Csipai, oggetto di attenzione è sempre l'ambito del rilievo d'ufficio dell'abusività della clausola ed, in particolare, se sussista il dovere del giudice nazionale che abbia accertato d'ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale, di informare le parti per le loro eventuali deduzioni.

Ricorda la Corte che "il fondamento del potere-dovere del giudice di rilievo d'ufficio del carattere abusivo della clausola risiede nel fatto che solo l'intervento positivo di un soggetto estraneo al rapporto contrattuale è in grado di ristabilire l'eguaglianza fra le parti, nonché di superare lo schermo formale di equilibrio che cela l'inferiorità del consumatore". La Corte richiama inoltre il precedente di Cort. Giust., 04/06/2009, C-243/08, Pannon GSM Zrt c. Erzsébet Sustikné Gyorfi, in base al quale il giudice nazionale non deve rilevare l'abusività della clausola qualora il consumatore, avvisato dal giudice, abbia dichiarato che non intenda invocare la detta abusività. Aggiunge, quindi, il giudice euro-unitario che "l'invito alla discussione circa la questione rilevabile d'ufficio, indirizzato alle parti nelle forme previste dalla legislazione nazionale, costituisce attuazione del principio del contraddittorio, sancito peraltro dall'art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea". Il giudice nazionale ha così l'obbligo, conclude il giudice di Lussemburgo, di tener conto della volontà espressa dal consumatore quando quest'ultimo, consapevole del carattere non vincolante di una clausola abusiva, afferma tuttavia di opporsi alla sua disapplicazione, dando quindi un consenso libero e informato alla clausola in questione. Rispondendo infine sull'ulteriore questione pregiudiziale, la Corte afferma che "il giudice nazionale, per valutare il carattere eventualmente abusivo della clausola contrattuale, deve tener conto di tutte le altre clausole contrattuali". Infine tra le pronunce più recenti si segnala Corte Giust., 14/6/2012, C-618/10, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, nella quale si riconosce il potere del giudice di rilevare d'ufficio, in limine litis, la natura abusiva di una clausola, in relazione ad una domanda di ingiunzione, prima dell'opposizione del consumatore.

Entrando nel dettaglio delle pronunce sopra citate ed accogliendo l'indirizzo seguito dalla Corte di Giustizia Europea il problema che ci siamo posti fin qui non sussisterebbe più, dato che l'autorevole Corte qualifica un soggetto terzo, estraneo alle parti, l'unico in grado di poter ristabilire l'eguaglianza fra le parti.

Come è ormai noto, la nullità può essere rilevata d'ufficio, ma opera soltanto a vantaggio del consumatore. Ne deriva che la nullità, anche se non dedotta dal consumatore, potrà essere rilevata ex officio dal giudice, ma solo se ciò vada, nel caso concreto, a vantaggio del consumatore stesso.

Anche la nostra Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza 12/12/2014 n.26242, si è pronunciata in merito a tale questione, soffermandosi poi, sul potere-dovere del giudice di rilevare ex officio le nullità cosiddette di "protezione". Sul punto, la citata sentenza afferma - in contrasto con il principio espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite, 04/09/2012 n.14828 - che l'indagine intorno alla sussistenza di un profilo di nullità rientra nell'attività officiosa dell'organo giudiziale, anche quando si versi in un caso di nullità protettiva. Un simile esito interpretativo è raggiunto sulla scorta del rilievo dell'"unità funzionale" del vizio di nullità, come volto alla tutela d'interessi di matrice superindividuale: essi si identificano, nelle ipotesi di nullità protettiva, in un principio di "ordine pubblico di protezione", espressivo di "valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art.41 Cost.) e l'uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli".

I principi costituzionali coinvolti dalle discipline di protezione (solidarietà, efficienza del mercato, tutela del risparmio, etc.) fanno salire la protezione del contraente (come esponente di un determinata categoria o serie: cliente, consumatore, impresa subfornitrice, etc.) a parametro oggettivo - e a rilevanza pubblicistica - di valutazione della validità dell'atto.

Dall'unità funzionale così delineata discende, sul piano disciplinare, la riconducibilità dello statuto codicistico del contratto nullo a ciascuna ipotesi di nullità. Per l'effetto, la regola del rilievo officioso deve intendersi come applicabile altresì alle nullità "di protezione virtuale" fattispecie legali di nullità con funzione protettiva ed a legittimazione ristretta, in cui non vi sia la menzione espressa della rilevabilità. La Corte di Cassazione aggiunge - a precisazione dell'assunto esposto - che l'esclusione della legittimazione del professionista si pone in un rapporto di perfetta coerenza con il rilievo d'ufficio del vizio: altrimenti "la omessa rilevazione officiosa della nullità finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole".

L'opzione ricostruttiva accolta dalle Sezione Unite viene a segnare il definitivo distacco della "nullità di protezione" da forme di annullabilità "renforcée", in favore di una piena confluenza nella nullità negoziale codicistica (in termini tanto di fattispecie, quanto di disciplina). Confluenza che coesiste con un tratto di specificità proprio di questa forma di nullità, consistente nel suo operare a vantaggio del contraente protetto.

Peraltro, in ambito nazionale sono insorte difficoltà circa l'inquadramento del tipo di legittimazione all'azione, anche in considerazione della norma di cui all'art.143, comma 1, del Codice del Consumo, secondo cui "i diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. E' nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice". La qualificazione della legittimazione all'azione come relativa non è pacifica. La legge non dice affatto che la legittimazione è ristretta al consumatore; ciò che invece dice è che la nullità (da chiunque venga invocata e anche se la dichiari d'ufficio il giudice) opera solo a vantaggio del consumatore. Un tale limite al rilievo d'ufficio è stato poi inteso operante sul piano del diritto sostanziale. Il titolare della legittimazione a far valere la nullità di protezione può, mediante convalida (in termini differenti dalla convalida del contratto annullabile ex art.1444 c.c.), consentire alla clausola abusiva, inizialmente inidonea a produrre effetti giuridici, di conseguire efficacia. Il potere del giudice di rilevabilità d'ufficio viene meno, dunque, quando risulti che il soggetto legittimato abbia manifestato (in forma espressa o tacita) la volontà di convalidare la clausola nulla, sanando così il vizio.

Per converso, altra parte della dottrina sostiene che vi sia una sostanziale incoerenza fra le nozioni di legittimazione riservata e convalida e il disposto dell'art.143, comma 1 del Codice del Consumo.

È stato anche osservato, senza ricorrere alle nozioni di convalida o sanatoria, ch il fatto che il contraente protetto non faccia valere la nullità è riconducibile alla decisione di dare comunque esecuzione al contratto che ne fosse affetto, e quindi più propriamente ad una forma di rinunzia soltanto all'azione.

Il riferimento, da ultimo, alla nozione processuale di rinunzia all'azione consente di rileggere in maniera più chiara la disciplina del Codice del Consumo.

A tal proposito non è sufficiente fare leva - per disattivare l'apparente contraddizione fra l'art.36, comma 3, e l'art.143, comma 1 - sul richiamo in quest'ultima norma alla forma del patto, come sembra fare anche la Corte di Cassazione (nella sentenza del 07/02/2013 n.8167) per escludere, attraverso la previsione di cui all'art.143, l'ammissibilità del rilievo d'ufficio della nullità anche in presenza della deroga imputabile al consumatore. Anche la rinuncia unilaterale implica un atto dispositivo che ricade nel fuoco della prima parte dell'art.143, comma 1. Come si è visto in precedenza, Corte Giust., 21/02/2013, C-472/11, pone il principio processuale del contraddittorio quale limite al rilievo d'ufficio: saranno le parti a dedurre sulla questione rilevabile d'ufficio, la nullità non sarà più rilevabile ove il consumatore si opponga alla disapplicazione della clausola in questione. Come anche, per venire al caso della giurisprudenza di legittimità, il giudice non rileverà la propria incompetenza funzionale se il consumatore ha convenuto il professionista in un luogo diverso dal foro previsto dall'art.63 Codice del Consumo.

La buona fede del professionista ed il significativo squilibrio a danno del consumatore

Passando alle ulteriori questioni, come detto, ai sensi del comma 1 dell'art.33 del Codice del Consumo, nel contratto che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, stipulato tra il consumatore ed il professionista, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Si impone immediatamente all'attenzione il richiamo alla "buona fede" che costituisce, nel panorama legislativo europeo delle norme di recepimento della Direttiva del Consiglio delle Comunità Europee n.13 del 5 aprile 1993, un'assoluta unicità: negli altri ordinamenti, infatti, l'abusività della clausola è stata posta direttamente in relazione alla contrarietà della stessa alla buona fede.

Nel dettaglio l'attenzione va posta al significato stesso del richiamo alla buona fede: nella norma in esame essa deve essere intesa quale mera ignoranza di ledere l'altrui diritto (buona fede soggettiva) e non quale criterio oggettivo di regola di comportamento (cfr. gli artt. 1175 e 1375 c.c.: buona fede oggettiva)4.
In questo senso il riferimento contenuto nel predetto art.33 del Codice del Consumo si manifesta come praticamente irrilevante5.

Peraltro, merita altrettanta attenzione lo "squilibrio significativo" dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, al quale fare riferimento allo scopo di delineare la nozione di vessatorietà.
In tal senso è indispensabile sottolineare che non si tratta di una questione di mera proporzionalità tra le prestazioni: non è in discorso una lesione del sinallagma contrattuale analoga a quella che consentirebbe ad una delle parti di attivare il rimedio della rescissione per lesione (art.1448 c.c.). Ciò che risulta invece determinante è piuttosto l'equilibrio generale del contratto, inteso come insieme di tutte le pattuizioni di cui esso è formato6. Il legislatore ha voluto evitare che una parte travolga l'altra, abusando della propria posizione contrattuale "forte". In questo senso diviene evidente ed innegabile un collegamento del tema in esame rispetto a quello dell'equità intesa quale strumento integrativo del contratto (art.1374 c.c.) e della più generale problematica dell'abuso del diritto.

Al Giudice è imposto quindi, comunque, di verificare in concreto quali siano i requisiti, le condizioni in virtù delle quali poter concludere nel senso della vessatorietà della clausola.

In soccorso del giudice nazionale è peraltro intervenuta la giurisprudenza euro-unitaria (v. la già citata sentenza della Corte di Giustizia Europea del 21/02/2013, C-472/11) la quale ha focalizzato anch'essa la propria attenzione sulle nozioni di "buona fede" e "significativo squilibrio" a danno del consumatore. Per appurare se una clausola determini un "significativo squilibrio" dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto, occorre tener conto, secondo la Corte, delle disposizioni applicabili nel diritto nazionale in mancanza di un accordo tra le parti in tal senso. È proprio una tale analisi comparatistica a consentire al giudice nazionale di valutare se, ed in quale misura, il contratto collochi il consumatore in una situazione giuridica meno favorevole rispetto a quella prevista dal vigente diritto nazionale, ponendo in essere un rapporto sinallagmatico. Per chiarire poi se un tale squilibrio sia stato creato "malgrado il requisito della buona fede", il giudice nazionale deve verificare se il professionista, qualora avesse trattato in modo leale ed equo con il consumatore, avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che quest'ultimo aderisse ad una siffatta clausola nell'ambito di un negoziato individuale.

Conclusioni

Al termine di questa breve analisi va rilevato che il dibattito sulla "nullità di protezione", nei suoi elementi essenziali, si inserisce nel più ampio e complesso dibattito relativo alla rilevabilità d'ufficio della nullità in rapporto agli altri mezzi d'impugnazione.

E' significativa la circostanza che in un breve lasso di tempo il nostro giudice di legittimità (cfr. la citata sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite del 12/12/2014 n.26242) abbia sentito l'esigenza di saggiare la portata del rilievo officioso della nullità anche con riguardo alla "nullità di protezione" (questa volta non obiter dictum come nel passato) e, sul punto, abbia rivisto radicalmente le sue conclusioni.

Infine, nonostante l'entusiasmo suscitato dalla Suprema Corte in quanti già da tempo avevano ritenuto che la "nullità di protezione", almeno quella di diretta derivazione "europea", dovesse essere attratta entro il regime generale della nullità, è auspicabile che ciò non ponga la parola fine alla riflessione sul tema.

Note

1 Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto applicarsi il Codice del Consumo al rapporto tra avvocato e cliente: ciò assume rilevanza ai fini della competenza territoriale (c.d. foro) in merito alla controversie tra l'avvocato ed il proprio cliente; infatti, la Suprema Corte ha ritenuto competente il Tribunale del luogo di residenza di quest'ultimo, in applicazione dell'art.33 del Codice del Consumo (v. Cass. Civ. 09/06/2011 n.12685).

2A. Gentili, La "nullità di protezione", cit., e bibliografia ivi citata, p. 83 ss. La formula "nullità di protezione" e stata adottata, dopo circa un decennio che la fattispecie esisteva come caso di inefficacia, dal legislatore nella rubrica della disposizione del Codice del Consumo che modifica in nullità la sanzione contro le clausole vessatorie (il caso dai più ritenuto paradigmatico).

3 G. D'Amico, Nullità virtuale-nullità di protezione, variazioni sulla nullità, in Contratti, 2008, pp.732, 737 e 744.

4 Qualche Autore, pur non essendo intervenuta alcuna modifica testuale, reputa che il concetto di buona fede debba essere interpretato ugualmente nel senso di buona fede oggettiva. Si vedano ad es. Lener, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Foro it., V, 1996, pp.159 e ss.; Cian, Il nuovo capo XIV-bis (titolo II, libro IV) del codice civile, sulla disciplina dei contratti dei consumatori, in Studium iuris, 1996, p. 415. Contra Rizzo, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore (artt.1469 bis e ss.), a cura di Cesaro, Padova, 1996, p.35, secondo il quale, vista la precisa scelta terminologica fatta dal legislatore, non può non assegnarsi al concetto di buona fede una colorazione soggettiva.

5 V. Bianca, Diritto civile, vol. III, Milano, 2000, p.379.

6 Cfr. Nuzzo, in Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore (art.1469 bis-1469 sexies), a cura di Bianca-Busnelli, Padova, 1999, p.721.



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