Gabriella Longo - gabriella982@hotmail.com 

L'istituto della cessione volontaria trova il suo antecedente storico negli artt. 25 e 26 della legge del 1865, anche se è solo con la l. 865/71 che ne viene positivizzata la figura all'interno dell'ordinamento italiano.

 Ex art. 45 D.P.R. 327/01 "Fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà".

La ratio dell'introduzione della cessione volontaria è data dalla possibilità di addivenire ad una più rapida conclusione del procedimento ablatorio, poichè si ricorre ad un modello consensuale e si salta la fase della determinazione dell'indennità definitiva,  a seguito del raggiungimento di un accordo su di essa.

Attraverso il ricorso alla cessione volontaria si determina un deflazionamento del contenzioso giudiziario: il consenso dell'espropriato alle condizioni stabilite dalla P.A. pone la stessa al riparo da future e possibili azioni giudiziali.

Controversa è la natura di tale istituto poiché una parte della dottrina ritiene che costituisca una vendita rispetto alla quale il procedimento amministrativo rappresenta un motivo, e non manca, in tal senso, giurisprudenza che ricostruisce in termini di contratto iure privatorum tale istituto, traendone, altresì, il corollario del potere del G.O. di sindacare la validità di tale accordo, con possibilità di annullarlo per irregolarità procedimentali o dichiararne la nullità nell'ipotesi di inesistenza del potere ablatorio.

La tesi prevalente lo considera quale contratto di diritto pubblico,  ovvero tecnica consensualistica di esercizio del potere pubblico, rientrante nell'ipotesi prevista dall'art. 11 l. 241/90; tuttavia una parte della giurisprudenza ritiene che non sia possibile ricostruire la cessione volontaria nei termini di cui all'art. 11 l. 241/90, in quanto trattasi di modo tipico di chiusura del procedimento attraverso modalità ritenute necessarie dalla legge sulla base di una relazione legale e predeterminata di alternatività al decreto ablatorio.

La cessione volontaria costituisce un atto avente struttura contrattualistica ma  con effetti propri del provvedimento amministrativo che sostituisce, si tratta cioè di un'equiparazione quoad effectum al decreto di esproprio ex art. 45 co. 3 T.U.

Pertanto, essendo la cessione volontaria posta in essere nell'esercizio della potestà pubblicistica, è soggetta agli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica, ivi compresa la forma scritta ad substantiam: la Cassazione ha precisato che la prova dell'esistenza di tale negozio, in particolare dell'obbligazione indennitaria, non può essere fornita attraverso la confessione o il riconoscimento di debito.

Ricostruita in termini di accordo sostitutivo, alla cessione volontaria vanno applicate le disposizioni del codice civile in materia obbligazionaria e contrattuale, nei limiti della loro compatibilità, secondo quanto stabilisce l'art. 11 co. 2 l. 241/90.

L'inserimento della cessione volontaria all'interno di un procedimento ablatorio vale a distinguerla dalla compravendita, la quale, invece, ne prescinde, e dato che la cessione volontaria non è concepibile previa dichiarazione di pubblica utilità, in mancanza di essa (o qualora essa sia decaduta dalla sua efficacia), sarà configurabile il diverso istituto della compravendita.

E' evidente come, a seconda della natura giuridica che si riconosce a tale istituto, si determina una diversa articolazione dei rimedi applicabili in caso di inadempimento e della disciplina in materia di patologia.

Difatti se si accogliesse la ricostruzione privatistica della cessione volontaria ne deriverebbe che ad essa sarebbero applicabili i rimedi privatistici della risoluzione, rescissione, nullità ed annullamento; inoltre, i diritti vantati dai terzi non si estinguerebbero (salvi gli effetti della trascrizione), e nell'ipotesi di cessione effettuata da chi non sia proprietario, il vero proprietario potrebbe esperire l'azione di rivendicazione.

Diversamente invece, dall'equiparazione della cessione volontaria ad un contratto di diritto pubblico (con acquisto a titolo originario) ne discende il corollario per cui, nell'ipotesi di acquisto del bene a mezzo di tale strumento, pronunciata l'espropriazione trascritto il relativo procedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere solo sull'indennità.

Da ciò ne consegue che il terzo che intenda far valere il diritto di proprietà non potrà, pertanto, proporre azione di rivendicazione avverso l'espropriante, ma dovrà agire nei confronti dell'espropriato, in particolare, appunto, sull'indennità di espropriazione.

In tal senso l'art. 34 comma 2 T.U.: "dopo la trascrizione del decreto d'esproprio o dell'atto di cessione, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere sull'indennità": anche recente giurisprudenza della Cassazione ha fatto applicazione di tale principio.

L'equiparazione della cessione volontaria al decreto di esproprio, di cui al co. 3 dell'art. 45 T.U., in termini di effetti -"L'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato"- comporta che il terzo, il quale ritenga di avere un diritto sull'indennità potrà proporre opposizione innanzi al G.O. , diversamente colui che è stato chiamato alla conclusione dell'accordo potrà impugnarlo innanzi al G.A.

Il legislatore ha configurato la posizione dell'espropriando in termini variabili nell'arco procedimentale che va dalla dichiarazione di pubblica utilità al decreto di esproprio: vi è un diritto potenziale di concludere l'accordo, ovvero un atto di cessione del bene, il quale si configura in termini di obbligo dopo l'accettazione dell'indennità provvisoria.

In tal senso l'art. 45 co. 1 T.U. stabilisce che il proprietario ha il diritto di stipulare con il beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene: "Fin quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio"-

 L'art. 20 T.U. disciplina il caso in cui, accettata l'indennità provvisoria, non venga stipulata la cessione per inadempimento del proprietario: "Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula."

Così il comma 9 dell'art.20 il quale prosegue al comma 12 stabilendo che: "L'autorità espropriante, anche su richiesta del promotore dell'espropriazione, può altresì emettere ed eseguire il decreto di esproprio, dopo aver ordinato il deposito dell'indennità condivisa presso la Cassa depositi e prestiti qualora il proprietario abbia condiviso la indennità senza dichiarare l'assenza di diritti di terzi sul bene, ovvero qualora non effettui il deposito della documentazione di cui al comma 8 nel termine ivi previsto ovvero ancora non si presti a ricevere la somma spettante."

In passato era sorto un dibattito, inoltre, sulla natura della posizione vantata dal soggetto privato nei confronti della P.A.; a tal riguardo erano emerse tre tesi: diritto soggettivo, interesse legittimo ed aspettativa di fatto.

Il legislatore pare accogliere la tesi del diritto soggettivo, secondo i più  ritenuto potestativo, tale per cui quando il privato decida di stipulare tale accordo, la P.A. non potrà rifiutarsi.

L'inadempimento dell'espropriante, con acquisizione alla proprietà pubblica verificatasi per irreversibile trasformazione del fondo occupato, determina una responsabilità contrattuale in capo alla P.A., e stante la non restituibilità del bene ne deriva, inoltre, un obbligo di risarcimento del danno.

 La controversia rientra nella giurisdizione del G.O., poiché l'ipotesi di attribuzione al G.A., di cui all'art. 43 T.U., riguarda il caso diverso di impugnazione di provvedimenti amministrativi, quando sia esercitata un'azione volta alla restituzione di un bene per scopi di interesse pubblico (in tal senso anche la giurisprudenza di Cassazione).

Non avendo il legislatore disciplinato l'ipotesi di inadempimento dell'autorità espropriante è intervenuta la giurisprudenza, sopperendo così alla lacuna normativa che si era venuta a determinare.

Secondo la Cassazione infatti l'ipotesi di mancato perfezionamento della cessione volontaria per inerzia della P.A. (in qualità di autorità espropriante), o di mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità, comporta l'automatica perdita di efficacia dell'accordo, perchè non si determina l'effetto traslativo che è proprio del successivo atto negoziale.

Ai fini del perfezionamento della cessione volontaria, il consenso sulla misura indennitaria costituisce elemento necessario ma non sufficiente al trasferimento della proprietà del bene, in quanto l'effetto traslativo  si verifica con la conclusione del procedimento ablatorio.

Pertanto il soggetto espropriante che dà avvio a tale procedimento non ha un obbligo di concluderlo e, conseguentemente, non è possibile configurare in capo al soggetto che ha concluso l'accordo un diritto ad essere espropriato ma, piuttosto, un diritto a ricevere l'indennità allorquando si verifichi l'esproprio, tanto che se esso non si verifica, l'accordo perde efficacia.

Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza le norme che disciplinano la cessione volontaria, in particolare quelle relative alla determinazione del prezzo, sono norme imperative, si esclude, quindi, che le parti possano determinare l'ammontare dell'indennità mediante libere trattative proprie di un libero mercato, conseguentemente, non sarebbero applicabili i rimedi privatistici della risoluzione  rescissione del contratto.

In materia la Cassazione ha precisato che qualora la P.A. non abbia rispettato i parametri legali, viene meno l'efficacia negoziale pubblicistica e ne deriva un contratto avente natura privatistica con conseguente giurisdizione del G.O.

Non è tuttavia semplice inquadrare le conseguenze della violazione delle norme sull'indennità da esproprio.

Secondo un primo orientamento si tratterebbe di nullità parziale ex art. 1419 co. 1, anche se il prezzo costituisce elemento essenziale dell'accordo, da cui ne dovrebbe pertanto discendere la nullità dell'intero contratto.

Così opinando troverebbe applicazione il 2° comma dell'art. 1419 c.c. in base al quale " la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative".

Trattandosi di clausole imperative, quindi, si avrà una sostituzione automatica della clausola viziata, con sostituzione automatica con il prezzo legale.

In tal senso la giurisprudenza ha più volte ammesso l'azione di nullità e di annullamento in materia di cessione volontaria, in particolare, appunto, l'ipotesi di nullità relativa della clausola determinativa del prezzo il cui vizio è sanato con l'applicazione dei criteri legali di commisurazione dell'indennità di esproprio.

Nell'ipotesi di controversia in materia di cessione volontaria si ha giurisdizione esclusiva del G.A. ex art. 53 co. 1 T.U., il quale ha innovato alla precedente disciplina prevista dall'art. 34 d. lgs. 80/98, estendendo la cognizione del G.A. anche alle controversie il cui oggetto è costituito da accordi stipulati in ambito di procedura ablatoria: "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti all'applicazione delle disposizioni del testo unico".

Sembra esservi un contrasto interno alla norma nella misura in cui stabilisce al co. 3 che tutte le controversie relative alla determinazione e corresponsione dell'indennità di esproprio sono soggette alla cognizione del G.O.: "Resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa."

In realtà si tratta solo di un contrasto apparente: il comma 3 attribuisce al G.O. le controversie economiche, prescindendo dalla modalità di conclusione dell'espropriazione, pertanto, ex art. 45 co. 2 T.U., rientrano nella cognizione del G.O. quelle controversie inerenti la determinazione e corresponsione dell'indennità, mentre spettano al G.A. quelle controversie inerenti l'annullamento, la nullità, il recesso, il risarcimento e la conclusione dell'accordo.

Occorre precisare che l'orientamento prevalente intende la competenza ex art. 53 co. 3 T.U. attribuita al Tribunale e non alla Corte d'Appello, difatti la competenza della Corte d'Appello in ultimo grado ha carattere di eccezionalità e la deroga al principio  del doppio grado di giurisdizione è limitata all'opposizione alla stima finale, mentre nell'ipotesi della cessione volontaria si tratta di stima provvisoria.

Tale ricostruzione trova fondamento anche nel disposto dell'art. 45 T.U., norma che in materia di opposizione alla stima prevede che la Corte d'Appello ha competenza solo nei limiti dell'indennità definitiva, in virtù del rinvio operato dal co. 1 della stessa norma all'art. 27 co. 2 T.U. inerente il pagamento o deposito definitivo dell'indennità.

 Gabriella Longo - gabriella982@hotmail.com cell. 3332879000


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