Un uomo anziano, non nel pieno possesso della capacità di intendere di volere sposa la propria colf, all'insaputa dei congiunti. 

Deceduto qualche tempo dopo, gli eredi chiedono l'annullamento del matrimonio poiché contratto in stato di assoluta incapacità di intendere e di volere, essendo il de cuius affetto da gravi patologie, e con il contributo decisivo e la malafede della donna che svolgeva attività di collaboratrice domestica in casa del defunto.

Rigettato il gravame proposto dagli eredi avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di annullamento, la Corte d'Appello ha ritenuto applicabile alla vicenda la norma di cui all'art. 127 c.c. che prevede l'intrasmissibilità dell'azione per l'impugnazione del matrimonio, salvo che il giudizio sia già pendente alla morte del coniuge-attore, cosa che non era avvenuta nella specie, non essendovi pertanto legittimazione ad agire in capo agli eredi.

Chiamata a pronunciarsi sulla questione, la Cassazione, con sentenza n. 14794 del 30 giugno 2014, ha confermato le statuizioni di merito e rigettato il ricorso.

La S.C. ha chiarito, innanzitutto, che l'art. 127 c.c. rappresenta "una eccezione al principio generale che è espresso nella rubrica ("intrasmissibilità dell'azione") in modo coerente con la natura di atto personalissimo che è propria del matrimonio e, allo stesso tempo, stabilisce anche un preciso limite alla possibilità che soggetti terzi, seppur qualificati come gli eredi, siano ammessi ad impugnare il matrimonio contratto da uno dei coniugi che sia affetto da vizi della volontà (art. 122 e 123 c.c.) o da incapacità di intendere e volere (art. 120 c.c.). Tale possibilità sussiste, infatti, solo nel caso in cui l'azione sia stata già esercitata dal coniuge il cui consenso o la cui capacità di intendere e volere risulti viziata, nel qual caso l'azione è trasmissibile agli eredi qualora il giudizio sia "già pendente alla morte dell'attore"".

Quanto al vuoto normativo lamentato dagli attori che verrebbe a crearsi se si escludesse la legittimazione piena e autonoma degli eredi ad impugnare direttamente il matrimonio del de cuius, in mancanza di un giudizio impugnatorio già introdotto dal coniuge in vita, per gli Ermellini non si è in presenza di alcuna lacuna ma di una "precisa scelta del legislatore che trova giustificazione nel fatto che il coniuge incapace di intendere e di volere è legalmente capace e, quindi, esclusivo titolare del potere di decidere se impugnare il proprio matrimonio (art. 120 c.c.), a differenza del coniuge interdetto il cui matrimonio può essere impugnato "da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo" oltre che dal tutore e dal pubblico ministero (art. 119 c.c.)".

In pratica, ha precisato la S.C., "il bilanciamento tra il diritto personalissimo del soggetto di autodeterminarsi in ordine al proprio matrimonio, proponendo l'azione di impugnazione, e l'interesse degli eredi a far valere l'incapacità del medesimo allo scopo di ottenere l'annullamento del matrimonio, con indubbi riflessi nei loro confronti sia sul piano personale che su quello patrimoniale, è rimesso alla valutazione del legislatore, che in modo non irragionevole ha ritenuto preminente l'esigenza di tutela della autodeterminazione e, quindi, della dignità di colui che, non interdetto, ha contratto matrimonio".

In ordine, infine, alla proposta questione di legittimità costituzionale degli artt. 120 e 127 c.c., per i giudici del Palazzaccio è manifestamente infondata, poiché il prospettato dubbio "può essere superato aderendo ad una interpretazione evolutiva e di sistema che offra alla persona coniugata o in procinto di contrarre matrimonio gli strumenti per esercitare, direttamente o indirettamente, il diritto fondamentale di autodeterminarsi nella scelta consapevole di impugnare il matrimonio e, in via preventiva, di contrario in condizioni di piena libertà e senza condizionamenti (dovendosi rilevare che, nella specie, l'impugnato matrimonio è stato contratto da persona legalmente capace e non sottoposta ad amministrazione di sostegno)".


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