La cancellazione volontaria dall'albo degli avvocati è assimilabile alla revoca o alla rinuncia alla procura, pertanto, non verificandosi la perdita forzata dello "ius postulandi" come nelle ipotesi di morte, radiazione o sospensione, la causa procede comunque il suo corso. Così ha statuito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12376 del 3 giugno 2014, in una fattispecie inerente la richiesta, da parte del fallimento di una società, della revoca e della inefficacia dei pagamenti eseguiti dalla fallita nei confronti di una banca creditrice nell'anno anteriore al fallimento. La banca eccepiva, invece, l'estinzione del processo ex art. 301 c.p.c. a causa della cancellazione dall'albo del difensore.

Confermando la sentenza della Corte d'Appello che accoglieva il gravame proposto dal fallimento, la Suprema Corte ha sottolineato che "la volontaria cancellazione dall'albo professionale del procuratore costituito non dà luogo all'applicazione dell'art. 301 c.p.c., comma 1, e non determina quindi l'interruzione del processo, in quanto, mentre le ipotesi ivi previste sono accomunate dal fatto di essere indipendenti (almeno in via diretta) dalla volontà del professionista o del cliente, la volontaria cancellazione è assimilabile alle ipotesi indicate nel terzo comma del medesimo articolo (revoca della procura o rinuncia ad essa)".

Secondo la S.C., infatti, la richiesta liberamente effettuata dal difensore di non fare più parte dell'apposito albo non è assolutamente equiparabile alle ipotesi di "morte o radiazione o sospensione" dello stesso, essendo "all'evidenza questi ultimi eventi, a differenza del primo, indipendenti dalla volontà dell'interessato, che non può affatto interferire sulla loro realizzazione neppure sotto il profilo temporale". 

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