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L'ordinanza della VI sezione della Cassazione civile n. 12781 depositata il 6 giungo 2014 offre l'occasione per fare il punto in tema di rinuncia all'assegno di mantenimento.

In linea generale, la rinuncia al mantenimento contenuta nella separazione consensuale è ininfluente ai fini dell'accertamento delle condizioni per l'attribuzione dell'assegno di divorzio.

Secondo la prevalente giurisprudenza, infatti, la determinazione dell'assegno divorzile è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione dei coniugi, con la conseguenza che il diniego dell'assegno divorzile non può fondarsi sul rilievo che nell'accordo di separazione i coniugi abbiano pattuito che nessun assegno fosse versato dal marito per il mantenimento della moglie: in sede di divorzio, infatti, il Giudice chiamato a pronunciarsi sul diritto all'assegno deve rapportare le attuali condizioni economiche delle parti con il pregresso tenore di vita coniugale (fra le tante pronunce in tal senso, oltre all'ordinanza citata, anche Cass. civ. 1758/2008).

Diversa è infatti la disciplina sostanziale, la natura, struttura e finalità dell'assegno di mantenimento e dell'assegno divorzile: quest'ultimo, in particolare, presuppone lo scioglimento del rapporto matrimoniale e prescinde dall'obbligo di mantenimento operante in regime di convivenza matrimoniale o di separazione (allorquando, lo ricordiamo, il rapporto di coniugio è ancora in essere): l'assetto economico relativo alla separazione può quindi rappresentare solo un mero indice di riferimento allorchè sia idonea a fornire utili elementi di valutazione.

Ma v'è di più. Da sempre la Cassazione ritiene nulla la rinuncia preventiva all'assegno: in altre parole, gli accordi raggiunti tra i coniugi in sede di separazione personale, che prevedano la rinuncia all'assegno di mantenimento, ed in vista del futuro divorzio, sarebbero nulli per contrarietà all'ordine pubblico e per violazione dell'art. 160 c.c. 

Il diritto all'assegno di mantenimento è infatti considerato indisponibile: esso altro non è se non espressione dei doveri d'assistenza materiale e di contribuzione ai bisogni della famiglia, sanciti dall'art. 143 cod. civ., e che permangono col venir meno della convivenza matrimoniale. Anche in fase di separazione, infatti, la legge tutela il coniuge debole stabilendo, appunto, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento qualora egli non abbia adeguati redditi propri.

Nel caso all'esame della Cassazione, si verte nell'ambito di un procedimento di modifica delle condizioni di separazione: la moglie chiede il riconoscimento di un assegno per sé, al quale aveva rinunciato con l'accordo di separazione omologato, secondo cui a partire da una certa data il marito nulla le avrebbe più versato a titolo di mantenimento, a fronte della sua autosufficienza. Va precisato che al momento dell'accordo la donna era casalinga.

Successivamente, tuttavia, la presupposizione della donna non si era realizzata: non solo infatti non aveva stabilizzato la propria attività lavorativa, ma era stata addirittura licenziata.

Secondo i Giudici, tuttavia, nessun fatto nuovo era stato allegato a fondamento della richiesta di modifica dell'accordo di separazione: la donna, in altre parole, casalinga era al momento della rinuncia al mantenimento così come priva di lavoro era anche dopo. E il patto rinunciativo non risultava condizionato al reperimento di un lavoro. Va anche rilevato che la cessazione dell'assegno di mantenimento era stata fatta coincidere, nella separazione consensuale, con la donazione alla moglie del 50 per cento della proprietà della casa familiare.

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