Avv. Francesca Ledda

Tizio, "imputato del reato previsto e punito dagli art. 81 cpv, 609 septies c.4 n.4), 94 e 609bis c.p., perché, con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso, in stato di ubriachezza abituale, costringeva in molteplici occasioni la moglie a congiungersi carnalmente con lui, minacciandola di picchiarla nel caso si fosse rifiutata; in particolare, in un episodio verificatosi verosimilmente in agosto 2007, dapprima colpendola al volto con un braccio e in seguito spingendola verso il balcone, minacciando di buttarla giù nonché lasciandola per circa un'ora sul pianerottolo del condominio

, costringeva la donna a subire un rapporto sessuale per porre fine a tale situazione,con recidiva reiterata infraquinquennale,"  condannato con sentenza del Tribunale di Rovigo n.485/13, emessa in data  19.12.2013, depositata in cancelleria  il 18.03.2014, entro i 90 giorni assegnatisi per il deposito delle motivazioni, con la quale il Tribunale di Rovigo, in composizione collegiale, condannava il prevenuto alla pena di anni 9 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, dichiarando l'imputato interdetto
dai pubblici uffici e interdetto legale per la durata della pena, ai sensi degli art. 28 ss c.p., e interdetto in perpetuo da qualsiasi ufficio inerente la tutela e curatela, con conseguente perdita del diritto agli alimenti e alla successione della persona offesa, ai sensi dell'art. 609 nonies n. 2 e 3 c.p., condannato altresì al risarcimento del danno subito dalla parte civile per la cui liquidazione le parti venivano rimesse avanti il giudice civile, liquidando alla parte civile
una provvisionale pari a € 20.000,00 immediatamente esecutiva, condannato altresì a rifondere alla parte civile le spese di costituzione e di difesa, liquidate in € 2.500,00, oltre ad accessori di legge. Il difensore interpone formale appello

avverso la suindicata sentenza.

Il Tribunale di Rovigo ha ritenuto raggiunta la prova della personale responsabilità del prevenuto in ordine al capo d'imputazione, sulla base della deposizione della parte offesa costituita parte civile nel processo ritenuta attendibile.

Vi è altresì che in data 18.07.2013 il Pubblico Ministero contestava all'imputato la procedibilità d'ufficio del delitto riportato nel capo d'imputazione e costituito dall'art. 572 c.p. , già giudicato con sentenza del GUP DI Rovigo del 17.11.2010 e parzialmente riformato dalla Corte d'Appello di Venezia con sentenza in data 20.4.2012 irrevocabile il 19.6.2012, sentenza allegata agli atti e recante il numero 321/2010 R.G.;

L'istruzione dibattimentale veniva assunta mutando ben due volte la composizione Collegiale, in ogni caso la difesa prestava il proprio consenso a non rinnovare l'assunzione delle prove.

Si evidenzia altresì come il procedimento de quo origini da una denuncia querela presentata dalla costituita parte civile nel gennaio 2010 nei riguardi del marito.

Da tale denuncia era partito il procedimento penale definito con sentenza n.321/10 R.G. definita con rito abbreviato con condanna e per il quale si legge dagli atti il GUP di Rovigo, e da quanto riportato poi in sentenza in un primo momento il GUP aveva ritenuto di non far integrare altre contestazioni, restituendo poi  gli atti al P.M. affinché procedesse per altri capi d'imputazione il cui risultato è stato proprio l'attuale processo.

Il primo motivo di impugnazione era l' improcedibilità dell'azione penale, stante la grave violazione del principio di ne bis in idem, con conseguente violazione dell'art. 649 c.p.p., già rilevato nel primo giudizio .

Tale principio non trova una copertura testuale nella Costituzione italiana, bensì nelle fonti internazionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell'uomo in particolare: art. 4 § 1 , VII Protocollo, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'art. 14 § 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Infatti due sono le principali e più dirette conseguenze della irrevocabilità della sentenza 1) una negativa ed è il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è stata , in relazione ad esso, già condannata o prosciolta e l'altra positiva la forza esecutiva della decisione.

Il disposto di cui all'art. 649 c.p.p. ha un'efficacia preclusiva, impedisce quindi la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia già oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al Giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex art. 129 c.p.p.

Così il ne bis in idem sostanziale ha una diversa portata del ne bis in idem processuale disciplinato all'art. 669 c.p.p..

Diversamente il Collegio di Rovigo pare aver confuso il ne bis in idem processuale con quello sostanziale, quando, nel respingere l'eccezione del difensore, afferma al pari di aderire all'orientamento che ravvisa nel comportamento descritto nel capo d'imputazione   il concorso tra la violenza sessuale e quella dei maltrattamenti.   

Orbene sul punto però altro non afferma con l'ovvia considerazione che prende atto trattarsi delle stesse condotte ma tralascia tutte le altre altre circostanze rilevate dalla difesa ed in particolare che proprio il P.M. Aveva configurato unicamente il reato di cui al 572 c.p. E che il GUP stesso aveva rigettato la richiesta di integrazione prima del rito abbreviato per poi invece restituire gli atti per una nuova imputazione che guarda caso però non è stata arricchita di nessuna altra prova rispetto a quanto egli aveva a processo per il rito conclusosi con sentenza di condanna. Ma ancor più ciò che propende a favore della linea di questa difesa è la circostanza che sugli stessi fatti è sceso il giudicato.

Il ne bis in idem sostanziale si ispira a ragioni di equità sancite all'art. 15 c.p., in tal senso anche la pronuncia delle SS. UU. Sentenza del 28.06.2005 n. 34655, le quali formulando un principio di diritto hanno sancito l'improponibilità dell'azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio del ne bis in idem, sempre che i due processi abbiano ad oggetto stesso fatto "storico", ossia una corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato nei suoi elementi costitutivi(condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo , luogo e o di persona. A riguardo inoltre la Corte ha ritenuto che la sfasatura delle imputazioni dipendesse da una differente qualificazione giuridica del titolo di imputazione di responsabilità, e non dall'individuazione di fattispecie ontologicamente autonome per diversità delle rispettive componenti strutturali.  Occorre quindi aver cura non tanto del fatto come è stato giuridicamente configurato nel primo giudizio nei suoi elementi , il medesimo fatto deve risultare nei suoi elementi costitutivi considerati sia nella loro dimensione storico-naturalistica , sia in quella giuridica, deve riguardare stesse condizioni di tempo, luogo e di persone.

Così il primo comma dell'art. 649 c.p.p. Sancisce non si possa procedere per il medesimo fatto neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo , per il grado o per le circostanze.

Venendo al caso che ci occupa l'imputato è stato tratto a giudizio proprio a seguito della querela presentata dalla moglie nel gennaio 2010 e su quei comportamenti tutti riportati nella parte motiva della sentenza di cui al n. 321/10 R. G.,è stato giudicato secondo un rito abbreviato ergo un rito premiale, alla luce poi della circostanza che nella sentenza si dà atto che il Giudice rigettava una richiesta di integrazione dell'imputazione avanzata dal P.M.

I comportamenti , ergo i fatti storici, quindi che fondarono la sentenza di condanna del primo giudizio sono gli stessi del secondo giudizio, con diversa configurazione giuridica, tanto ciò è vero che di ciò ne viene dato atto nella parte motiva della stessa sentenza sopra richiamata è stata prodotta, ulteriormente nella parte motiva della stessa si legge "l'aveva costretta ad avere rapporti sessuali non desiderati ai quali la donna soggiaceva al solo scopo".

Ecco perchè appare, a dire di questa difesa, legittimo doversi impugnare l'ordinanza che rigettò le difese sul punto e che furono rigettate allora perchè ritenute non accoglibili nel momento della proposizione, posto che il titolo del reato era diverso e non potevano probabilmente essere accolte perchè non era dato comprendere se i fatti sarebbero stati gli stessi.

Ora invece appare eclatante la circostanza che trattasi di stessi fatti, così stesse testimonianze in ordine agli stessi fatti, stesso periodo storico, stessi soggetti coinvolti, stesse le condotte, ritenute fondamento del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. oltre al delitto di lesioni, reato già giudicato e punito , in sede di rito abbreviato, con una pena non di poco conto.

Non importa quindi che divenuta definitiva la sentenza gli stessi comportamenti oggi dovessero essere perseguiti per altro titolo e nella fattispecie precisa quello di cui all'art. 609 bis c.p., perchè se così fosse allora non si spiegherebbe perchè non consentire al P.M. Di integrare i capi d'imputazione per poi restituire gli atti e procedere per altri reati.

Avv. Francesca Ledda


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