di Paolo M. Storani - (seconda parte; la prima è stata pubblicata il 27.4.2014) Seconda puntata delle mie considerazioni sul tema nevralgico della lesione alla reputazione a mezzo stampa, un danno pluridimensionale e composito che può assumere sfaccettature variabili in relazione alle modalità contingenti con le quali si manifestino l'azione, il pregiudizio e la sua incidenza sulla vita dell'individuo colpito. Ho gradito che in proposito i lettori di questa rubrica, raccogliendo l'invito ad esprimersi sulle criticità del tema, mi stiano fornendo apporti multipli e qualificati, come quello del medico Giuseppe Lantone che ha esaminato in un paio di post sul forum i gangli vitali della disputa; ringrazio anche chi mi sta scrivendo direttamente.

Questa mia nuova riflessione muove dall'endiade diritto e conflitti; con tale espressione peraltro il Prof. Gaetano Azzariti, ordinario nell'Università di Roma La Sapienza, ha intitolato il manuale sulle sue "Lezioni di diritto costituzionale" edito da Laterza nel 2010; riannodiamo i fili espositivi di questa rassegna (o saggetto) con il dispositivo della sentenza n. 13448/2013 (pubblicata il 28 ottobre 2013) relativa al giudizio civile n. 31916/2010 R.G. del Tribunale di Milano, Sez. I Civ., emesso dal Giudice Unico Dott.ssa Orietta Stefania Miccichè che rinvengo casualmente a pag. 32 (annunzi legali) del quotidiano La Repubblica di martedì 7 gennaio 2014; avuto riguardo ad un libro che certamente avrete letto (o di cui è impossibile non aver sentito narrare in qualche talk show), "Gomorra", è stata promossa una causa da Vincenzo Boccolato (attore) con il patrocinio degli avv.ti Alessandro Santoro e Luigi Iannettone, contro lo scrittore Roberto Saviano e la Mondadori S.p.A., (convenuti) tutelati dagli avv.ti Antonello Martinez ed Alberto Merlo. Questo il PQM:


"Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni ulteriore domanda, eccezione o istanza disattesa:

accertato il contenuto diffamatorio in danno di Enzo Boccolato della frase contenuta a pagina 291 del libro intitolato Gomorra (nella parte in cui l'autore prospetta che Enzo Boccolato insieme ad Antonio La Torre "si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di eroina"), condanna Roberto Saviano e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. in via solidale al risarcimento del danno subìto da Enzo Boccolato e a corrispondergli la somma di € 30.000,00 - comprensiva di interessi e rivalutazione sino alla data odierna - oltre agli interessi legali dalla sentenza al saldo;

ordina la pubblicazione dell'intestazione e del dispositivo della presente sentenza a cura e spese dei convenuti una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica entro 30 giorni dalla notifica in forma esecutiva della presente sentenza autorizzando sin da ora parte attrice a provvedervi autonomamente qualora detto termine non sia stato osservato dai convenuti, ponendo le relative spese a carico dei convenuti medesimi;

condanna i convenuti in solido tra loro al rimborso delle spese del giudizio in favore dell'attore, liquidate - ex d.m. n. 140/12 in complessivi € 4.340,00 (di cui € 340,00 per spese e € 4.000,00 per compensi) oltre IVA e CPA.

Milano, 24.10.2013. Il Giudice Unico dr. Orietta Miccichè".


Insegna Cass. 12 novembre 1999, n. 1632: "Per l'applicabilità dell'esimente del diritto di cronaca la verità della notizia pubblicata deve essere valutata rispetto al suo nucleo essenziale, rimanendo irrilevanti eventuali imprecisioni su fatti secondari e non determinanti".

Ma il giornalista è garante della verità delle dichiarazioni rese dall'intervistato?
Accade di frequente che sulla stampa e sugli altri mezzi d'informazione vengano riportate dichiarazioni di terze persone il cui contenuto è oggettivamente diffamatorio; ci si interroga se in tali casi il giornalista o l'intervistatore, insieme al direttore responsabile, rispondano dell'illecito.
In proposito si registra un'evoluzione significativa della giurisprudenza.
Fino a non molti anni fa era frequente che il giornalista, pubblicando l'intervista a contenuto diffamatorio, non andasse esente da responsabilità neppure ove si fosse limitato a riportare con fedeltà le dichiarazioni rese dall'intervistato.
Tale orientamento, esaltato dalla famosa vicenda "Cerminara - Vitalone", di cui non mancherà occasione di discettare in prosieguo, finiva per costituire il giornalista "garante della verità" delle dichiarazioni rese dall'intervistato.
Più di recente, tuttavia, la Corte di Cassazione è sembrata avere mutato opinione, alleggerendo la posizione del giornalista nel caso di interviste a contenuto diffamatorio.
Protagonista del caso giudiziario fu Irene Pivetti, l'ex Presidente della Camera dei Deputati, persona assai gradevole che mi è capitato per avventura di conoscere (mi pare nel marzo '13) nel corso di una trasmissione televisiva di Rai1 in cui eravamo entrambi invitati quali esperti.
Era accaduto che Lidia Ravera, rilasciando un'intervista, ne aveva leso la reputazione con espressioni univoche del tipo "al di là e prima di ogni considerazione dico che questa donna è stupida. E come si fa a commentare seriamente le opinioni di un'oca ... quando si facevano le lotte femministe lei aveva il grembiulino dell'asilo. E' proprio vero: gratta un integralista e trovi un cretino ... Vorrei avere nemici decenti e non fare a cazzotti con la ricotta ... Non possiamo aspettarci nulla da queste signore di destra, non sono altro che delle scimmiette funzionali alla cultura maschile".
In quella fattispecie l'esponente della Lega Nord (passata poi ad altri partiti minori per poi abbandonare il mondo politico e dedicarsi alla Onlus LTBF, che propone interventi sociali per il diritto allo studio ed al lavoro), peraltro laureata con lode a Milano in lettere, indirizzo filosofico, aveva chiesto la condanna dell'editore e del giornalista per la pubblicazione dell'intervista di Lidia Ravera.
La S.C., riformando la sentenza di merito, ritenne esenti da responsabilità i convenuti osservando che in caso di pubblicazione di intervista a contenuto diffamatorio i criteri che delimitano l'esercizio del diritto di cronaca (verità del fatto narrato, pertinenza dell'interesse che esso riveste per l'opinione pubblica e correttezza delle modalità con cui il fatto viene riferito) vanno rapportati alle espressioni verbali provenienti dall'intervistato, che costituiscono il fatto in sé: è sufficiente, pertanto, che concetti e parole riportati dal giornalista siano perfettamente rispondenti a quanto profferito dall'intervistato.
Un punto nodale dell'esposizione è quello della quantificazione liquidatoria del pregiudizio all'immagine che la vittima dell'illecito civile, avente valenza contrattuale o extracontrattuale, abbia dovuto risentire a causa della proiezione negativa di un atto o di un fatto che si sia rivelato pregiudizievole per la propria sfera.
E' arduo individuare un comune binario di percorrenza in ordine alla risarcibilità del danno arrecato al leso.
Non resta, quindi, che fare affidamento sugli unici due criteri in grado di consentire la liquidazione sia del danno all'immagine, sia di tutti gli altri danni non patrimoniali; tipicità: va posta la necessaria premessa che il danno non patrimoniale è tipico perché è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge (art. 2059 c.c.).
Tali due sistemi sono quello delle presunzioni e quello della condanna equitativa.
Ovviamente le presunzioni (articoli 2727 e seguenti c.c.) sono ragionamenti che il giudice usa per risalire da un fatto noto ad uno ignoto; così il sistema presuntivo, sfruttando la logica giuridica e l'apprezzamento ragionevole nella ricostruzione del fatto materiale, sarà in grado di orientare il libero convincimento giudiziale.
In relazione alla condanna in via equitativa, intanto è possibile in quanto non si riesca a determinare, con esattezza matematica e di calcolo, il quantum respondeatur (artt. 1223 e 2056 c.c.).
Comunque, il giudice nella sentenza non potrà fare a meno di fornire un'adeguata motivazione in ordine alle ragioni che lo hanno indotto, nell'utilizzo del potere equitativo, a condannare il responsabile della lesione al pagamento di una data somma.
E' certo che, non potendosi offrire una ferrea e granitica giustificazione in ordine al fatto di aver liquidato cento al posto di centoventi o di ottanta, in mancanza di coordinate di altra natura che vincolino l'accertamento giudiziale a livello quantitativo, equità vuol dire sinonimo di alta discrezionalità, verificabile e controllabile dal giudice superiore a pieno titolo, in grado di appello, ed entro certi limiti, in sede di legittimità avanti alla Corte di Cassazione, ma sempre mutuabile in ipotesi di motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria.
La sentenza che abbia dato ragione all'attore o al ricorrente sarà immediatamente esecutiva ai sensi di legge a mente dell'art. 282 c.p.c. ("la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti) in forza di una precisa scelta di campo che il legislatore ha compiuto con la legge n. 353/1990, all'art. 33. (appuntamento a presto, sempre sulle colonne di LIA - Law In Action, per la terza puntata!)
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