Dr Luigi Vitale - Cresce di giorno in giorno la querelle sulla recente rivalutazione del capitale della banca centrale e a seguito della conversione in legge del c.d. "decreto Imu-Bankitalia", con l'animata votazione alla Camera del 29 gennaio scorso, la polemica si è trasformata in bufera con la diffusione di notizie sempre più allarmanti.
È bene, pertanto, fare chiarezza su un provvedimento complesso e di difficile decodificazione che ha scatenato posizioni nettamente contrastanti tra chi vi vede solo un "regalo" alle banche, pagato con soldi pubblici e chi, invece, un'iniezione di liquidità che porterà ad una più equilibrata ripartizione delle quote di partecipazione e ad un rafforzamento del sistema bancario, ergo a un utile per il Paese.

Procedendo con ordine, il decreto e la relativa legge di conversione riordinano l'assetto proprietario della banca d'Italia, sul modello di una "public company", partendo da una rivalutazione del capitale, rimasto fermo alla cifra "simbolica" di 300 milioni di lire, oggi 156mila euro, versata al momento della costituzione dell'istituto nel 1936. Una rivalutazione contabile, il cui valore reale, secondo il responso del comitato di esperti consultati sul tema, ammonta oggi a 7,5 miliardi di euro (che verrà suddiviso in 300mila quote che da un valore di 0,52 passano a 25mila euro ciascuna).
Il provvedimento di rivalutazione contabile delle quote azionarie di Bankitalia, pertanto, non costerà un centesimo né all'erario né ai cittadini, per lo meno non in forma di prelievo diretto. Di fatto, il consistente aumento sarà prelevato dalle riserve statutarie dell'istituto e, quindi, da un patrimonio appartenente allo Stato e agli Italiani.
D'altronde, anche lo Stato avrà i suoi benefici in termini di ultragettito fiscale per via dell'imposta (una tantum, introdotta dalla legge di stabilità pari al 12%) che le banche azioniste dovranno versare in base alle quote possedute.

Uno dei punti più controversi dell'operazione è il tetto fissato dalla norma, secondo il quale nessun socio potrà detenere quote di Bankitalia superiori al 3% del capitale.
Ciò significa che gli azionisti che oggi possiedono quote in eccedenza - e cioè per la maggior parte aziende che a seguito del processo di trasformazione delle banche pubbliche dei primi anni Novanta, sono diventate soggetti privati a tutti gli effetti e hanno costituito grandi gruppi per poter restare sul mercato (in particolare Intesa san Paolo, Unicredit) - si ritrovano in portafoglio un surplus rilevante che dovranno mettere in vendita, ovviamente al prezzo rivalutato ricavandone ingenti guadagni.

Quanto agli azionisti che potranno entrare in possesso delle quote di Bankitalia, il provvedimento non comporta nessun rischio di acquisto da parte di istituti stranieri, come da più parti si è paventato: per effetto delle norme internazionali sui vincoli di portafoglio delle banche (Basilea 2, Basilea 3) l'acquisto è limitato infatti a soggetti aventi sede legale e amministrazione centrale in Italia (banche, assicurazioni, enti, fondazioni, ecc.) e, temporaneamente, alla stessa Bankitalia.

Per i promotori della ricapitalizzazione, l'operazione comporterà un rafforzamento patrimoniale in vista di Basilea III, rivitalizzerà il sistema bancario ed avrà l'effetto di sbloccare fondi che potranno essere investiti e utilizzati per finanziare imprese e cittadini, allentando così la stretta creditizia.

Attenzione: questo non significa che poi le banche lo faranno davvero.
Forse, sarebbe stato più opportuno vincolare l'aumento del valore delle quote all'incremento dei prestiti a famiglie e imprese, in modo da favorire un sostegno reale alla crescita e alla ripresa dell'economia. Forse, si invoca da più parti, si poteva ricorrere ad altre opzioni e i dubbi che l'operazione sia stata dettata solo da esigenze del mondo della finanza, si moltiplicano. Ma, tant'è, dura lex sed lex.

Per la normativa si può fare riferimento al testo del DECRETO-LEGGE 30 novembre 2013 , n. 133 e alla relativa legge di conversione del 29 gennaio 2014, n. 5
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