"L'adempimento dell'obbligo di tutela dell'integrità fisica del lavoratore imposto dall'art. 2087 cod. civ. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d'attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all'impiego d'attrezzi e macchinari quanto all'ambiente di lavoro, e deve essere verificato, nel caso di malattia derivante dall'attività lavorativa svolta, esaminando le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per prevenire l'insorgere della patologia."

Ribadendo tale principio di diritto la Corte di Cassazione,con sentenza n. 25072 del 7 novembre 2013, ha precisato che "le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate".

La Suprema Corte, rigettando il ricorso proposto dalla Società datrice di lavoro, ha affermato che "la non computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro

o a malattia professionale nel periodo di comporto si ispira, infatti, allo stesso principio di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, che non consente di valutare secondo i normali criteri il periodo di assenza dal lavoro prolungato oltre i limiti consentiti, nelle ipotesi in cui l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e, comunque, presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma, altresì, quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica - per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata".

La Corte del merito - si legge nella sentenza - ha fatto corretta applicazione di tali principi, non limitandosi a considerare la natura professionale della malattia, ma doverosamente accertando la riconducibilità della stessa a colpa datoriale, verificata anche attraverso la c.t.u. espletata, le cui conclusioni sono state nel senso che la lavorazione cui era addetta il lavoratore era caratterizzata dai rischi specifici costituiti dalla ripetuta movimentazione di pesi sebbene non eccessivi e dalla esposizione a sbalzi di temperatura.

In merito alla contestazione dell'accertamento della riconducibilità delle patologie artrosiche a colpa datoriale ai fini della relativa esclusione dal computo del periodo di comporto e dell'accertamento dell'eventuale superamento del relativo periodo, sul rilievo della ritenuta idoneità alle mansioni della lavoratrice all'esito di accertamenti disposti dall'azienda e della mancata comunicazione da parte della prima di patologie di tale tipo, i Giudici di legittimità sottolineano che "In relazione alla responsabilità del datore di lavoro per violazione degli obblighi di sicurezza, ex art. 2087 cod.civ., l'onere probatorio a carico del lavoratore non è limitato alla prova dell'evento lesivo, ma comprende anche la prova del nesso causale tra tale evento e l'attività svolta; in quest'ambito, peraltro, è possibile la scomposizione del nesso causale in relazione a diversi periodi dell'attività lavorativa, in quanto determinate mansioni (nella specie, sollevamento carichi), in sé faticose ma inizialmente non rischiose né particolarmente usuranti per le modalità con le quali vengono svolte, possono, tuttavia, divenire concausa dell'aggravamento di una malattia preesistente a fronte dell'aggravarsi della situazione fisica del lavoratore, portata a conoscenza del datore, il quale avrebbe dovuto rideterminare il contenuto delle mansioni del lavoratore, e dei propri obblighi di protezione, esentandolo dal compimento dell'attività divenuta rischiosa".


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