di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 21942 del 25 Settembre 2013. Nel caso di specie, a fronte di ricorso promosso dall'avvocato - il quale lo promuove per riscuotere il proprio credito, vantato nei confronti del defunto - nei confronti degli eredi, accertato e quantificato il compenso in primo grado e confermata tale sentenza in appello, ricorrono in Cassazione gli interessati lamentando l'avvenuta accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario: la Corte d'appello avrebbe errato nel liquidare la somma poiché, così facendo, essa eccederebbe il limite delle attività patrimoniali.

In merito alla problematica delle limitazioni vigenti nei confronti degli eredi accettanti con beneficio di inventario la Cassazione riporta orientamento pressocchè granitico: tale orientamento "pone il divieto di proporre azioni esecutive individuali contro l'erede che abbia accettato con beneficio d'inventario, escludendo dal divieto le azioni di cognizione, siano esse di condanna o di accertamento". Se così non fosse, i creditori sarebbero privati del diritto di chiedere giudizialmente l'accertamento (solo questo nel caso di specie; non anche la condanna) del proprio diritto. In questo caso, a mezzo di azione di cognizione, l'avvocato ha ottenuto una pronuncia giudiziale che accertasse e quantificasse il proprio credito, credito da riscuotere "per l'ipotesi in cui questi decada dal beneficio prima della formazione dello stato di graduazione".

La regola generale è quella secondo cui l'eccezione di beneficio di inventario va eccepita già nel corso della cognizione e non successivamente, in fase esecutiva, a mezzo opposizione all'esecuzione

. Di conseguenza, se tale eccezione non viene eccepita nel corso del procedimento di cognizione, non potrà poi essere proposta per la prima volta in fase esecutiva. La problematica in oggetto possiede tuttavia una sfumatura ancora differente: il processo di cognizione ha natura meramente accertativa, senza che sia stata richiesta né pronunciata alcuna condanna. La sentenza impugnata non è dunque idonea a formare titolo esecutivo. Per questo motivo, dunque, la Suprema Corte rigetta il ricorso, enunciando tuttavia quale sia, come sopra specificato, la regola generale da applicare normalmente a fronte di tali problematiche.

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