"Per integrare l'utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti basta che le stesse siano inesistenti dal punto di vista oggettivo, ossia che vi sia "diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti".
L'art. 2 del D.lgs. 74 del 2000 si riferisce a "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" e l'art. 1, lett. a), dello stesso decreto legislativo chiarisce che "tale locuzione inerisce a quelle fatture o documenti che sono emessi a fronte di operazioni in tutto o in parte inesistenti o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto

in misura superiore a quella reale ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. E' indispensabile quindi che la documentazione fraudolenta sia stata emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate (come richiesto per l'utilizzo dell'avverbio "realmente" nella norma definitoria menzionata di cui all'art. 1, lett. a), del decreto legislativo). Invece la dichiarazione fraudolenta prevista e sanzionata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, rappresenta una frode contabile alla quale deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato (diverso dall'uso dì fatture o altri documenti falsi, integrante l'ipotesi di cui al precedente art. 2) ma comunque caratterizzato dalla idoneità ad indurre in errore e ad impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione annuale d'imposta (è stato ritenuto che rientri nella fattispecie la tenuta di un sistema parallelo di contabilità "in nero"). Recentemente è stato precisato che il "quid pluris" rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie deve consistere in una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall'impiego di artifici idonei ad ostacolare l'accertamento della falsità contabile".
Con tali precisazioni, la Corte di Cassazione, con sentenza
n. 36900 del 9 settembre 2013, ha annullato la sentenza con cui i giudici di merito avevano evidenziato che a fronte di un rapporto di lavoro esistente, la differenza tra l'importo indicato in busta paga e quello inferiore effettivamente corrisposto, determinava una fittizia indicazione di voci passive ed una decurtazione della base imponibile, con conseguente evasione IVA ed avevano ritenuto che le buste paga indicanti la corresponsione al dipendente dì un compenso superiore a quello effettivamente versato fossero documenti attestanti operazioni parzialmente inesistenti.
La motivazione della sentenza
- si legge nella motivazioni della Suprema Corte - non è condivisibile e risulta apodittica, "posto che la prestazione di lavoro risulta effettuata per cui sì pone un problema di qualificazione giuridica del fatto, eventualmente rientrante nella tipizzazione di cui al menzionato art 3 dlgs n. 74 del 2000, in relazione all'omessa indicazione di una parte di quanto corrisposto ai due dipendenti. D'altra parte i giudici di appello non hanno neppure specificato in che cosa consisterebbero i raggiri ed i mezzi fraudolenti adoperati dall'imputato per ostacolare l'accertamento della falsa rappresentazione indicata nelle buste paga e trasfusa nella dichiarazione, limitandosi ad affermare la parziale inesistenza delle operazioni, senza spiegare la ragione per la quale un comportamento omissivo costituisca un raggiro e comunque un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento di tali falsi rappresentazione contenute nella dichiarazione."


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