"In materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, in forza del quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi resistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge". 

Richiamando tale principio di diritto consolidato in giurisprudenza, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10565/2013, ha rigettato il ricorso proposto dall'Inail avverso la sentenza con cui i giudici d'Appello, ritenuta la riconducibilità all'attività lavorativa della malattia contratta in seguito ad emotrasfusioni, conseguenti ad infortunio sul lavoro, accoglieva la domanda proposta dagli eredi del lavoratore per il riconoscimento del loro diritto alla rendita. 

L'Istituto sosteneva che, poiché a cagionare l'infezione erano state le trasfusioni di sangue infetto, le conseguenze negative di queste andavano ricondotte ad un errore occorso nella somministrazione e nella prosecuzione di un trattamento medico eseguito con imperizia e negligenza dal personale medico ed infermieristico e, quindi, in nessun modo riferibili all'attività lavorativa del deceduto lamentando che la Corte territoriale non avesse adeguatamente argomentato in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la patologia epatica che aveva causato la morte del lavoratore e l'infortunio sul lavoro

La Suprema Corte, chiarendo che opportunamente la Corte territoriale, nel motivare la sua decisione, ha richiamato il principio affermato dalla giurisprudenza dì legittimità, ha altresì precisato che "nella fattispecie, le emotrasfusioni, determinanti nel dante causa dei ricorrenti l'infezione da HCV, che lo aveva portato a morte, rappresentavano un fattore, intervenuto nella catena delle condizioni, che avevano contribuito all'evento, che non aveva interrotto il nesso causale tra l'infortunio in itinere

e la morte. Risultava, infatti, certo e documentalmente comprovato (e, peraltro, neanche contestato in giudizio) che le emotrasfusioni si erano rese indispensabili a causa della necessità di trattamento chirurgico delle fratture subite dal nell'infortunio in itinere e, dunque, in diretta dipendenza causale dall'infortunio." Pertanto, l'epatite, contratta a causa delle emotrasfusioni, non poteva che essere dipesa, per mediazione causale, dall'infortunio stesso.


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