Il potere di autotutela della Pubblica Amministrazione, riconosciuto definitivamente dalla legge agli articoli 21 ter, 21 quinquies e 21 nonies della legge 241/1990 (legge sul procedimento amministrativo), consiste nella facoltà riconosciuta in capo alla stessa di sospendere l'efficacia (anche temporaneamente) dei suoi atti o di ritirare un atto da essa stessa emanato (atto valido ed efficace) sia su iniziativa propria che su richiesta del privato interessato che abbia adeguatamente motivato la propria richiesta. Ciò al fine di eliminare dall'ordinamento, in maniera rapida ed efficace, i danni che un atto viziato e pregiudizievole degli interessi dei terzi sicuramente provocherebbe, senza che il singolo debba per forza ricorrere alla tutela giurisdizionale. Ma non solo: l'autotutela amministrativa non opera soltanto in "negativo" ma può essere anche posta in essere al fine di mantenere "in vita" atti amministrativi ormai scaduti o confermare altri atti altrimenti inefficaci (c.d. "conservazione" e "convalescenza" degli atti amministrativi). Il fatto che la legge qualifichi tale potere come una facoltà implica di conseguenza che, in caso di silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione a seguito di proposta di ritiro di un atto amministrativo inoltrata dal privato, quest'ultimo non possa promuovere azione avverso il silenzio ex art. 2 legge sopra citata. Potrà al contrario essere impugnato dagli interessati il provvedimento che disponga il ritiro dell'atto in via di autotutela.

Soggetto attivo titolare di tale potere è la stessa Pubblica Amministrazione che ha provveduto ad emanare l'atto. Gli atti generati in via di autotutela sono recettizi: occorre cioè portare gli stessi a conoscenza delle controparti interessate affinchè guadagnino piena efficacia. A seconda del tipo di vizio dell'atto (formale o sostanziale) e del suo intervento (originario o successivo) la giurisprudenza ha classificato. Ad esempio, si ha annullamento d'ufficio dell'atto viziato in origine prontamente ritirato, oppure decadenza di quelli che al contrario risultano solo successivamente viziati.

Giurisprudenza recente (Consiglio di Stato, sentenza n. 6507 del 18 Dicembre 2012) ha tuttavia stabilito che il potere di autotutela deve essere esercitato in presenza di determinati presupposti. In particolare l'impiego di questa facoltà (ad esempio per mezzo di una sospensione temporanea dell'efficacia) deve essere giustificato dalla necessità sorta in capo alla pubblica amministrazione di effettuare approfondita attività istruttoria, consentire l'esperimento di ispezioni e verifiche funzionali ad assumere la decisione finale di mantenimento o di eliminazione dell'atto dall'ordinamento.

Stabilisce il Supremo Consiglio che, al fine della sua attivazione, debbano sussistere "gravi ragioni, cioè circostanze tali da rendere quanto meno inopportuno che un provvedimento emanato, non inficiato da vizi macroscopici o facilmente riconoscibili, continui a svolgere i propri effetti per evitare che questi possano definitivamente alterare e compromettere il substrato fattuale sul quale incide".

L'impiego del termine "gravi motivi" implica inoltre il riferimento ad altri fondamentali principi del nostro ordinamento regolanti l'azione amministrativa: l'adeguatezza e la proporzionalità della sua opera. Un atto è adeguato se idoneo al perseguimento dell'obiettivo preposto; è proporzionale se, raggiungendo lo scopo, incide il meno possibile sulla sfera dei privati, o comunque comporti un sacrificio dei singoli ancorato alle esigenze del caso concreto. Senza tralasciare, infine, l'obbligo generale in capo alla Pubblica Amministrazione di motivare in modo succinto i propri atti, siano essi di sospensione, mantenimento o di ritiro.



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