Costringere un figlio minorenne all'accattonaggio è da considerarsi come una forma riduzione in schiavitu'. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna a sei anni di reclusione inflitta a un padre di etnia rom, che minacciando di botte la figlia di appena 10 anni, la costringeva a chiedere l'elemosina dalla mattina alla sera.

A nulla è valsa la richiesta dell'uomo di ridurre la pena a motivo del fatto che nell'etnia rom "l'accattonaggio assume il valore di un vero e proprio sistema di vita". La Quinta sezione penale, sentenza
37638/2012, ha ricordato che "la giurisprudenza in materia ha escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all'accattonaggio".

La Corte ha confermato quindi la condanna a sei anni stabilita dalla Corte d'assise d'appello di Catanzaro per riduzione in schiavitù della piccola, dopo che in primo grado la condanna era stata ben più pesante, 8 anni e 6 mesi di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Come si legge in sentenza "Commette il reato di riduzione in schiavitù colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto ridotto in schiavitù o in condizione analoga, senza che la sua nozione culturale o di costume escluda l'elemento psicologico del reato". La Corte ha ricordato infine che "le consuetudini di usare i bambini nell'accattonaggio non sono invocabili come causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, atteso che la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge".

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