L'animo "divorzista" svelato a parenti e amici e non direttamente al coniuge non è sufficiente per delibare la sentenza di nullità del matrimonio emessa dal Tribunale ecclesiastico. Deve essere infatti tutelato il principio dell'affidamento incolpevole e della buona fede. É questo il contenuto della sentenza n. 13240/11 depositata il 16 giugno scorso con cui i giudici di legittimità della seconda sezione civile hanno stabilito che affinchè non ci siano contrasti con l'ordine pubblico è necessario provare che la rivelazione sia stata fatta direttamente al partner. La Corte ha infatti ritenuto non sufficiente, ai fini della delibazione, la circostanza che il partner avesse manifestato a parenti ed amici il suo non credere nell'indissolubilità del matrimonio
. La declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico - hanno precisato i giudici di Piazza Cavor - che abbia pronunciato nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di un coniuge, dell'indissolubilità del vincolo, postula che tale divergenza sia stata manifestata all'altro coniuge ovvero che questi l'abbia effettivamente conosciuta o che non l'abbia conosciuta per propria negligenza, atteso che, ove non ricorra alcuna di tali situazioni, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà con l'ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale della tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole.
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