CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA
N. 78 ANNO 2002
- Omissis -
nei
giudizi di legittimità costituzionale: (a) degli artt. 53, primo e secondo
comma, 54, terzo comma, e 30-bis del codice di procedura civile; e (b)
dell’art. 53, primo e secondo comma, del codice di procedura civile, promossi,
rispettivamente, con ordinanza emessa il 6 ottobre 2000 dalla Corte d’appello
di Perugia e con ordinanza emessa il 12 marzo 2001 dalla Corte d’appello di
Roma, iscritte al n. 793 del registro ordinanze 2000 ed al n. 519 del registro
ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51,
prima serie speciale, dell’anno 2000 e n. 27, prima serie speciale, dell’anno
2001.
Visti gli atti di costituzione di Wilfredo Vitalone;
udito nell’udienza pubblica del 29 gennaio 2002 il
Giudice relatore Valerio Onida;
udito, per sè medesimo, l’avvocato Wilfredo
Vitalone.
1.1. – Con ordinanza emessa il 6 ottobre 2000,
pervenuta in cancelleria il 20 novembre 2000 (reg. ord. n. 793 del 2000), la
Corte d’appello di Perugia ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24,
104 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale: a)
dell'art. 53, primo comma, del codice di procedura civile (Giudice competente),
nella parte in cui prevede, nell'ambito del processo civile, che "sulla
ricusazione ... decide, con ordinanza non impugnabile, [lo stesso] collegio
[cui appartiene il giudice ricusato] se é ricusato uno dei componenti del
tribunale o della corte" e non già (come é previsto dall’art. 40, comma 1,
del codice di procedura penale), "una sezione della corte [d'appello]
diversa da quella cui appartiene il giudice [della corte d'appello]
ricusato", con ordinanza ricorribile per cassazione; b) del combinato
disposto degli articoli 53, secondo comma, e 54, terzo comma, cod. proc. civ.
(Ordinanza sulla ricusazione), nella parte in cui prevede che l'ordinanza che
decide sulla ricusazione di un giudice non é impugnabile, nonchè nella parte in
cui prevede, sempre con statuizione non impugnabile, l’automatica condanna – in
caso di declaratoria di rigetto o di inammissibilità del ricorso – della parte
che ha proposto la ricusazione al pagamento di una pena pecuniaria, senza
consentire al giudice della ricusazione alcuna doverosa valutazione, ai
predetti fini, della temerarietà o meno del ricorso e, quindi, l'opportunità di
applicare o meno la pena pecuniaria, eventualmente graduandola caso per caso;
c) dell'art. 30-bis cod. proc. civ. (Foro per le cause in cui
sono parti magistrati), introdotto dall’art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n.
420, nella parte in cui non prevede che il giudizio incidentale sulla
ricusazione di un giudice della sezione civile della corte d'appello venga
devoluto alla cognizione del giudice, ugualmente competente per materia, che ha
sede nel capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi
dell'art. 11 del codice di procedura penale, allorquando nella sede non vi sia
altra sezione "diversa" da quella cui appartiene il magistrato
ricusato.
Le questioni sono sorte nell’ambito di un
procedimento di ricusazione, promosso nei confronti dei componenti del collegio
della corte d’appello investito del reclamo contro il decreto di
inammissibilità di una domanda di risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Il remittente, sottolineata l'esigenza del giudice
di apparire – ancor prima che essere – sereno, imparziale ed indipendente,
ritiene che tali requisiti vengano a mancare allorquando il giudizio
sull’accoglimento, sul rigetto o sulla declaratoria di inammissibilità di un
ricorso per ricusazione di un giudice debba essere espresso addirittura dai
colleghi del medesimo collegio.
Posto che con le norme sulla translatio dettate
dalla legge n. 420 del 1998 il legislatore ha voluto porre sullo stesso piano
la garanzia che il magistrato debba "apparire ancor prima che essere"
imparziale ed indipendente tanto nel processo penale quanto in quello civile,
estendendo a quest’ultimo la regolamentazione prevista dall’art. 11 cod. proc.
pen., sarebbe irrazionale la diversa disciplina tra il procedimento incidentale
di ricusazione nel rito civile e l’analogo procedimento nel rito penale. Solo
in penale, a norma dell’art. 40, comma 1, cod. proc. pen., é previsto che sulla
ricusazione di un giudice del tribunale, della corte di assise o della corte di
assise di appello decide la corte di appello e su quella di un giudice della
corte d'appello decide, con ordinanza ricorribile per cassazione, una sezione
della corte d'appello penale "diversa" da quella cui appartiene il
giudice [della corte d'appello] ricusato; nel rito civile, invece, a norma
dell’art. 53 cod. proc. civ., sulla ricusazione di un giudice del tribunale
civile o della corte d'appello civile decide lo stesso collegio cui appartiene
il magistrato ricusato, peraltro con ordinanza non impugnabile, con la quale la
parte che l’ha proposta, in caso di rigetto o declaratoria di inammissibilità,
deve essere comunque condannata al pagamento, oltre che delle spese, di una
pena pecuniaria.
Questa diversità di disciplina non sarebbe
giustificata, posto che anche in civile il procedimento incidentale di
ricusazione ha ad oggetto la valutazione della sussistenza o meno di un
"interesse" nella causa da parte del giudice ricusato, che – qualora
sussistente – sarebbe idoneo a ledere il diritto soggettivo del cittadino ad
essere giudicato da un giudice indipendente ed imparziale. L’irragionevolezza
della norma denunciata risiederebbe anche nel suo meccanismo di reciprocità, la
competenza sulla ricusazione essendo prevista in capo allo "stesso"
collegio cui appartiene il magistrato ricusato, il quale, a sua volta, in base
alla norma denunciata, sarà chiamato ad esprimere il medesimo giudizio
sull'eventuale ricusazione proposta nei riguardi degli stessi colleghi che
l'hanno giudicato.
Ad avviso del giudice remittente, la disciplina
processuale di cui al combinato disposto degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ. si
pone in contrasto, oltre che con il principio di ragionevolezza, con l’art. 24
della Costituzione, sia perchè sancisce la non impugnabilità dell'ordinanza che
decide sulla ricusazione di un giudice civile, sia perchè prevede, in caso di
declaratoria di inammissibilità o di rigetto del relativo ricorso, anche
l'automatica condanna della parte che ha proposto la ricusazione al pagamento
di una pena pecuniaria, senza consentire al giudice della ricusazione alcuna
doverosa valutazione, ai predetti fini, della temerarietà o meno del ricorso e,
quindi, dell’opportunità di applicare o meno la pena pecuniaria, eventualmente
graduandola caso per caso. E questo sarebbe fonte di ulteriore compromissione
"sia della funzionalità e credibilità dell'attività giurisdizionale, sia
della stessa serenità, imparzialità e – soprattutto – indipendenza della
coscienza dei giudici" investiti dell’istanza di ricusazione.
Per completezza, e con concreto riferimento alla
fattispecie al suo esame, il giudice ritiene di dover sollevare anche la
questione di costituzionalità dell’art. 30-bis cod. proc. civ. Esso
contrasterebbe con il principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione),
nonchè con il diritto del cittadino ad essere giudicato da un giudice
indipendente ed imparziale, nella parte in cui non prevede che il giudizio
incidentale sulla ricusazione di un giudice della sezione civile della corte d'appello
venga devoluto alla cognizione di un giudice, ugualmente competente per
materia, che ha sede nel capoluogo di un diverso distretto di corte d'appello,
determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale, allorquando
nella sede del distretto non vi sia altra "sezione diversa" da quella
cui appartiene il magistrato ricusato. La rilevanza della questione, sottolinea
l’ordinanza di rimessione, nel caso di accoglimento della questione di
costituzionalità del combinato disposto degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ.,
discenderebbe dal fatto che presso la Corte d'appello di Perugia "esistono
una sola sezione penale ed una sola sezione civile, oltre ad una sezione
promiscua della quale, nei giudizi di rinvio a seguito di annullamento da parte
della Corte suprema di cassazione civile o penale, ovvero nelle ipotesi di
astensione o di incompatibilità di consiglieri della sezione civile o della
sezione penale di questa Corte, sono stati e saranno chiamati a farne parte, in
varia composizione e spesso nel medesimo collegio, sia alcuni dei consiglieri
ricusati, sia i componenti di questo collegio remittente e, pertanto, di fatto
non esiste, presso questa Corte, una ‘sezione diversa da quella cui
appartengono’ i magistrati ricusati".
1.2. – Nel giudizio dinanzi alla Corte si é
costituita la parte ricusante nel giudizio a quo, la quale, sulla premessa di
condividere integralmente e di far proprie le motivazioni dell’ordinanza di
remissione, chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, nei sensi
e nei termini di cui all’ordinanza di rinvio, degli artt. 53, primo e secondo
comma, 54, terzo comma, e 30-bis cod. proc. civ., "con la precisazione che
l’incostituzionalità dell’art. 30-bis va dichiarata anche nell’ipotesi in cui
il giudizio sulla ricusazione di un magistrato di una determinata corte
d’appello debba essere demandato ad altra sezione della stessa corte, diversa
da quella cui appartiene il magistrato ricusato, ciò perchè le ragioni di
incompatibilità derivano dai rapporti di colleganza, conoscenza, frequenza e/o
possibile amicizia tra i magistrati della stessa corte d’appello civile".
2.1.– Con ordinanza emessa il 12 marzo 2001,
pervenuta in cancelleria il 2 aprile 2001 (reg. ord. n. 519 del 2001), la Corte
d’appello di Roma, nel corso di un procedimento incidentale di ricusazione
proposto nel corso di un giudizio di appello per risarcimento dei danni, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 104 della Costituzione e all’art. 6,
comma 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n.
848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, primo e secondo
comma, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede la competenza dello stesso
collegio, cui il giudice ricusato appartiene, a decidere sulla ricusazione di
un giudice del tribunale o della corte d’appello.
Osserva il giudice remittente che le condizioni di
obiettività, trasparenza, credibilità ed indipendenza del giudice costituiscono
un bene primario e necessario nella dialettica processuale. La mancanza di tali
condizioni, in contrasto con il principio di ragionevolezza posto dall'art. 3
della Costituzione, si verificherebbe allorquando la decisione
sull’accoglimento, inammissibilità o rigetto di un ricorso per ricusazione di
un giudice sia adottata dai componenti dello stesso collegio di appartenenza
del giudice ricusato, con il quale vengono decise tutte le altre cause, e che
potrebbe, a sua volta, essere chiamato a decidere sulla ricusazione diretta ad
altri componenti del medesimo collegio, attraverso un anomalo ed inusitato
scambio reciproco di ruoli. Infatti – argomenta la Corte d’appello – lo
svolgere le funzioni giudicanti in un medesimo collegio può dar luogo ad un
condizionamento ambientale nell'ipotesi in cui gli stessi componenti
dell'organo collegiale siano chiamati a decidere in processi in cui siano
coinvolti i colleghi in qualità di parti, a motivo dell'inevitabile instaurarsi
di rapporti interpersonali di vario tipo tra magistrati, con il conseguente
possibile verificarsi di una turbativa della serenità ed imparzialità dei
giudizi.
Il remittente considera la diversa disciplina
dettata dall’art. 40, comma 1, cod. proc. pen., nonchè quella dettata dall’art.
30-bis cod. proc. civ. per i giudizi civili in cui i magistrati siano coinvolti
in qualità di parti, ed osserva che tale differenza é ingiustificata, posto
che, tanto in civile quanto in penale, comune é l’esigenza di garantire la
trasparenza e serenità del magistrato che "deve apparire ancor prima che
essere" imparziale ed indipendente.
L’irrazionalità dell’attribuzione della competenza a
decidere sull’istanza di ricusazione al collegio al quale appartiene il giudice
ricusato, allorchè sia ricusato uno dei componenti del tribunale o della corte
d’appello civile, sarebbe confermata dalla non impugnabilità del provvedimento
nel rito civile – impugnabilità invece prevista dall’art. 41 cod. proc. pen.,
che ammette il ricorso per cassazione – e dalla previsione, per il caso di declaratoria
di inammissibilità o di rigetto, della condanna, ai sensi dell’art. 54, terzo
comma, cod. proc. civ., del ricorrente al pagamento di una pena pecuniaria,
senza alcuna discrezionalità per il giudice di valutare l'opportunità di
applicazione o graduazione della pena.
Il contrasto con gli altri parametri evocati é
motivato dalla Corte remittente considerando che il procedimento incidentale di
ricusazione avrebbe ad oggetto la valutazione della sussistenza o meno di un
"interesse" nella causa da parte del giudice ricusato, che – qualora
sussistente – sarebbe idoneo a ledere il diritto soggettivo del cittadino ad
essere giudicato da un giudice indipendente ed imparziale (art. 104 della
Costituzione ed art. 6, comma 1, della convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali).
2.2. – Anche in questo giudizio si é costituito il
ricusante, il quale, condividendo e facendo proprie le argomentazioni del
remittente, e richiamando l’ordinanza 6 ottobre 2000 della Corte d’appello di
Perugia, chiede – come nell’altro giudizio – che sia dichiarata l’illegittimità
costituzionale, "nei sensi e nei termini di cui all’ordinanza
citata", degli artt. 53, primo e secondo comma, 54, terzo comma, e 30-bis
cod. proc. civ., "con la precisazione che l’incostituzionalità dell’art.
30-bis va dichiarata anche nell’ipotesi in cui il giudizio sulla ricusazione di
un magistrato di una determinata corte d’appello debba essere demandato ad
altra sezione della stessa corte, diversa da quella cui appartiene il
magistrato ricusato, ciò perchè le ragioni di incompatibilità derivano dai
rapporti di colleganza, conoscenza, frequenza e/o possibile amicizia tra i
magistrati della stessa corte d’appello civile".
1.– Entrambe le Corti d'appello remittenti sollevano
questione di costituzionalità della disciplina contenuta nel codice di
procedura civile, relativa alla competenza a decidere sulla ricusazione di uno
o più giudici del tribunale o della corte d'appello. Si tratta dell'art. 53 (Giudice
competente), primo comma, seconda parte, ai cui sensi "sulla ricusazione
decide … il collegio se é ricusato uno dei componenti del tribunale o della
corte". La Corte di Perugia (che denuncia, anche sotto altri profili di
seguito richiamati, il "combinato disposto" degli artt. 53, primo e
secondo comma, e 54, terzo comma, cod. proc. civ.) censura la norma
limitatamente alla parte che si riferisce alla ricusazione di un magistrato
della corte d'appello; la Corte di Roma (che coinvolge nella denuncia, oltre al
primo, il secondo comma dell'art. 53) censura la norma che prevede la
competenza dello stesso collegio per la decisione sulla ricusazione di un
magistrato del tribunale o della corte d'appello, "con irragionevole
reciprocità per l'ipotesi in cui lo stesso magistrato sia chiamato a decidere
quale componente del collegio sull'eventuale ricusazione proposta nei confronti
dei colleghi che lo avevano giudicato". I parametri invocati sono gli
artt. 3, 24 (di cui si fa cenno solo nella motivazione, non nel dispositivo
dell'ordinanza), 104 e 111 della Costituzione per la Corte d’appello di
Perugia, gli artt. 3 e 104 della Costituzione e l'art. 6, comma 1, della
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali (sul diritto ad un giudizio equo da parte di un tribunale
indipendente ed imparziale) per la Corte d'appello di Roma.
In sostanza entrambi i remittenti ritengono che la
decisione sulla ricusazione da parte dello stesso collegio cui appartiene il
ricusato (sia pure con la sostituzione di quest'ultimo, come avviene in base
alla costante interpretazione giurisprudenziale) non garantisca un giudizio
imparziale, in quanto la serenità di giudizio potrebbe essere pregiudicata a
motivo dell'inevitabile instaurarsi di rapporti interpersonali di vario tipo
fra i magistrati che operano quotidianamente nello stesso collegio, con la possibilità
– sottolineata in particolare dalla Corte di Roma – che il magistrato ricusato
sia chiamato a sua volta a decidere sulla ricusazione di altri componenti dello
stesso collegio. Entrambi i remittenti, inoltre, ritengono tale disciplina in
contrasto con il principio di ragionevolezza desunto dall'art. 3 della
Costituzione, sulla base del raffronto con la diversa disciplina apprestata dal
codice di procedura penale, che all'art. 40, comma 1, demanda la decisione
sulla ricusazione di un giudice del tribunale alla corte d'appello, e quella
sulla ricusazione di un magistrato della corte d'appello ad una sezione della
stessa corte diversa da quella cui appartiene il giudice ricusato; nonchè con
la disciplina prevista dall'art. 30-bis del codice di procedura civile,
introdotto dall'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420, il quale
attribuisce le cause in cui siano comunque parti magistrati, che secondo le
norme ordinarie spetterebbero alla competenza di un ufficio giudiziario
compreso nel distretto in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, alla
competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel
capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11
del codice di procedura penale (cioé di un diverso distretto indicato dalla
legge in modo da evitare la "reciprocità").
A tale questione, per così dire, principale, la
Corte d’appello di Perugia ne aggiunge altre tre. Due riguardano ancora la
disciplina codicistica della ricusazione nel processo civile, censurata per
violazione degli stessi parametri, e specificamente (stando alla motivazione)
dell'art. 24 della Costituzione: a) nella parte in cui prevede che la decisione
sia pronunciata con ordinanza non impugnabile (art. 53, secondo comma, cod.
proc. civ.), nonchè: b) nella parte in cui prevede che l'ordinanza che rigetta
o dichiara inammissibile il ricorso per ricusazione comporti automaticamente la
condanna dell'istante ad una pena pecuniaria, senza consentire al giudice
alcuna valutazione in ordine alla temerarietà del ricorso stesso nè alla
eventuale graduazione della sanzione, in caso di colpa del ricorrente (art. 54,
terzo comma, cod. proc. civ. – Ordinanza sulla ricusazione). Anche la Corte
d’appello di Roma fa riferimento a queste due previsioni normative, ma solo a
conferma della affermata irrazionalità della norma denunciata.
L'ultima questione, sollevata dalla sola Corte
d’appello di Perugia, investe, "per completezza", in riferimento al
principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) nonchè al diritto del cittadino ad
essere giudicato da un giudice indipendente ed imparziale (art. 104 Cost. e
art. 6 della convenzione europea dei diritti dell'uomo), l'art. 30-bis del
codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che il giudizio
incidentale sulla ricusazione di un giudice della sezione civile della corte
d'appello venga devoluto alla cognizione di un giudice, ugualmente competente
per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto determinato ai sensi
dell'art. 11 del codice di procedura penale, allorquando nella sede del
distretto non vi sia altra "sezione diversa" da quella cui appartiene
il magistrato ricusato: situazione che si verificherebbe nel distretto di
Perugia, presso la cui Corte d'appello esistono una sola sezione penale ed una
civile, oltre ad una sezione promiscua della quale sono stati o saranno
chiamati a far parte, anche nel medesimo collegio, sia alcuni dei giudici
ricusati, sia i componenti del collegio remittente.
Quest’ultima censura é prospettata in termini più
ampi dalla parte privata (anche, ma irritualmente, nel giudizio promosso dalla
Corte d’appello di Roma, in cui non é sollevata questione sull’art. 30-bis cod.
proc. civ.): essa afferma che l’illegittimità costituzionale investirebbe la
norma anche con riferimento all’ipotesi in cui vi sia nella corte d’appello una
sezione diversa da quella cui appartiene il magistrato ricusato, in quanto le
ragioni di "incompatibilità" derivanti dai rapporti di colleganza e
di frequentazione sussisterebbero tra i magistrati appartenenti alla stessa
corte d’appello civile.
2.– Le questioni sono oggettivamente connesse, e
pertanto i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica
pronunzia.
3.– Non é fondata la questione – riferibile
all'articolo 53, primo comma, del codice di procedura civile, benchè estesa
dalla Corte d'appello di Roma anche al secondo comma dello stesso articolo –
relativa alla attribuzione della competenza a decidere sulla ricusazione di un
giudice del tribunale o della corte d'appello al medesimo collegio cui
appartiene il ricusato.
Il diritto ad un giudizio equo ed imparziale,
implicito nel nucleo essenziale del diritto alla tutela giudiziaria di cui
all'art. 24 della Costituzione, ed oggi espressamente sancito dall'art. 111,
secondo comma, della stessa Costituzione, sulla falsariga dell'art. 6, primo
comma, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, comporta certamente che la decisione sulla istanza
di ricusazione di un giudice – diretta appunto a far valere concretamente quel
diritto – sia assunta da un organo e secondo procedure che assicurino a loro
volta l'imparzialità del giudizio.
La legge può provvedere (come in effetti provvede) a
questo scopo in modi diversi, purchè ragionevolmente idonei, componendo
l'interesse a garantire l'imparzialità del giudizio con i concorrenti interessi
ad assicurare la speditezza dei processi (la cui "ragionevole durata"
é oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti,
costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e
imparziale, come oggi espressamente risulta dal dettato dell'art. 111, secondo
comma, della Costituzione) e la salvaguardia delle esigenze organizzative
dell'apparato giudiziario. Ciò che non potrebbe comunque ammettersi é che la
decisione sulla ricusazione sia rimessa allo stesso magistrato ricusato, o ad
un collegio di cui egli faccia parte anche ai fini di tale decisione. Per
questo l'attribuzione – disposta dalla norma impugnata – della competenza a
decidere al "collegio", nel caso in cui sia ricusato un giudice del
tribunale o della corte d'appello in sede civile, non può che intendersi,
secondo una interpretazione conforme a Costituzione – d'altronde costantemente
adottata dalla giurisprudenza –, come attribuzione ad un collegio di cui
continuano a far parte solo i componenti diversi da quello o da quelli
ricusati.
Ma una volta garantito questo "minimo",
non può ritenersi costituzionalmente necessaria una specifica disciplina, fra
quelle prescelte o che possono essere prescelte dal legislatore. In
particolare, non si può ritenere che la semplice appartenenza del ricusato e
dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione allo stesso collegio
giudicante, e tanto meno allo stesso ufficio giudiziario o alla stessa sezione
del medesimo, costituisca di per sè causa di compromissione dell'imparzialità
dei decidenti. I motivi della ricusazione concernono uno specifico processo, ed
uno o più giudici individualmente considerati, in relazione a situazioni
specifiche che li riguardano, senza investire gli altri magistrati che pur
facciano parte dello stesso ufficio e dello stesso collegio, i quali dunque
conservano una posizione di piena imparzialità (e il dovere corrispondente)
allorquando siano chiamati a decidere sulla ammissibilità e sulla fondatezza
della ricusazione medesima.
Nè può dirsi che la consuetudine a giudicare a
fianco di altri magistrati, nell'ambito dello stesso ufficio e dello stesso
collegio, costituisca, di per sè sola, elemento tale da intaccare la
imparzialità di chi decide sulla ricusazione di uno dei componenti di questo,
sul presupposto del costituirsi di una sorta di "solidarietà di
collegio". Ogni singolo componente di un collegio giudicante concorre
infatti alle decisioni di questo in piena indipendenza anche rispetto agli
altri componenti dello stesso collegio, nel cui ambito ben possono
manifestarsi, e di frequente in fatto si manifestano, opinioni diverse: essendo
la collegialità precisamente volta ad assicurare il concorso indipendente di
più opinioni, anche difformi, al fine della formazione del giudizio, se del
caso in base a prestabilite regole di maggioranza. La maggiore o minore
frequenza con la quale un magistrato si trovi a far parte di un collegio
insieme a determinati altri magistrati non riduce di per sè questa indipendenza
del singolo nell'ambito dell'organo collegiale.
Tutto ciò non toglie che, sul piano delle scelte di
opportunità, il legislatore possa ritenere uno od altro criterio per la
decisione sulle ricusazioni più o meno idoneo a meglio assicurarne la
correttezza: e va comunque ricordato che l’eventuale violazione del diritto ad
un giudizio imparziale, derivante da una erronea decisione negativa sulla
ricusazione, può trovare rimedio, pure se si escluda l'impugnabilità ex se di
tale decisione, nel controllo sulla pronuncia resa col concorso del giudice
ricusato. Ciò che, in questa sede, basta a dirimere la questione é la
constatazione che il sistema prescelto dal legislatore del codice di procedura
civile non é tale da ledere le garanzie minime di imparzialità come sopra
individuate.
4.– A conclusioni diverse non conduce nemmeno la
considerazione di quanto prospettato dalle Corti remittenti circa la
possibilità che i giudici chiamati a decidere sulla ricusazione di un collega
si trovino a loro volta a vedere decisa da questo stesso collega una
ricusazione promossa, in altra occasione, nei propri confronti, con una sorta
di "irragionevole reciprocità". La ricusazione é di per sè istituto
volto a porre rimedio a situazioni eccezionali e non fisiologiche, nè di
quotidiana verificazione, che riguardano ogni volta, in concreto, singoli
procedimenti e le rispettive parti. Inoltre essa non apre una controversia il
cui oggetto sia la contrapposizione fra un diritto del ricusante ed un diritto
del ricusato, sulla quale si pronunci un altro giudice (controversia che
dovrebbe allora avere uno sviluppo processuale autonomo), ma dà luogo solo ad
una incidentale verifica delle condizioni perchè il processo si possa svolgere
nelle dovute condizioni di imparzialità dei giudicanti, in considerazione delle
specifiche ed eccezionali circostanze invocate dal ricorrente a sostegno della
ricusazione. Non é dunque ipotizzabile alcuno "scambio" tra
ricusazioni diverse, afferenti a processi diversi e fondate sulle ragioni
singolari e specifiche volta a volta avanzate dalla parte interessata. La
eventualità paventata dai remittenti ha riguardo dunque a circostanze di mero
fatto, di per sè inidonee a fondare la censura mossa alla disciplina
legislativa.
5.– Quanto si é finora osservato conduce a ritenere
infondata la questione anche sotto il profilo, pure prospettato dai giudici a
quibus, dell'affermata violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza,
in riferimento alle differenze fra la disciplina impugnata e quella riservata
dal legislatore alla ricusazione nell'ambito del processo penale, in cui la
decisione, quando sia ricusato un giudice della corte d'appello, é rimessa ad
un'altra sezione della stessa corte.
Già si é detto come siano costituzionalmente
ammissibili diverse scelte, purchè rispettose del principio di imparzialità,
circa la competenza ed il procedimento per la decisione sulla ricusazione. Il
fatto che nell'ambito del processo penale – in cui sono sistematicamente in
gioco beni costituzionalmente più "sensibili", e maggiore può essere
la preoccupazione di attestare in modo più evidentemente visibile
l'imparzialità dei giudicanti – il legislatore abbia ritenuto di demandare la
decisione ad una sezione diversa della stessa corte non significa che, per ciò
solo, possa ritenersi irragionevole la diversa disciplina del codice di
procedura civile. A diversi processi possono corrispondere, in base a scelte
discrezionali del legislatore, discipline differenziate anche degli stessi
istituti, purchè non siano lesi principi costituzionali, come quello di
imparzialità, che debbono reggere tutti i giudizi (cfr. sentenza n. 31 del
1998; ordinanze n. 326 del 1999 e n. 465 del 2000). Il principio costituzionale
di eguaglianza non comporta il divieto di regolamentazioni diverse dei diversi
tipi di processo: anche "le soluzioni per garantire un giusto processo non
devono seguire linee direttive necessariamente identiche per i due tipi di
processo" (sentenza n. 387 del 1999; e cfr. pure sentenze n. 326 del 1997
e n. 51 del 1998).
Ancor meno può valere il riferimento, come tertium
comparationis, alla disciplina che l'art. 30-bis del codice di procedura civile
dedica alla competenza per le cause in cui siano parti magistrati. Infatti,
come si é detto, il giudizio incidentale sulla ricusazione non può assimilarsi
ad un processo in cui siano parti da un lato il ricusante, dall'altro il
magistrato ricusato, il quale viene bensì "udito" (art. 53, secondo
comma, cod. proc. civ.), al fine di raccoglierne le prospettazioni sulle circostanze,
che lo riguardano, addotte dal ricorrente, ma non acquista qualità di parte nel
procedimento, nè quindi é chiamato a tutelare in giudizio una sua posizione
soggettiva protetta.
Non può dunque assumersi come irragionevole la
diversa disciplina che il codice riserva alla competenza a giudicare su cause
nelle quali un magistrato dello stesso distretto sia parte, e rispettivamente
alla competenza a decidere sulla ricusazione di un giudice dello stesso
collegio.
6.– La questione, sollevata dalla Corte d'appello di
Perugia, circa la legittimità costituzionale della previsione dell'art. 53,
secondo comma, del codice di procedura civile, ai cui sensi il collegio decide
sulla ricusazione "con ordinanza non impugnabile", é inammissibile,
in quanto priva del requisito della rilevanza.
La soluzione del dubbio avanzato non é infatti in
alcun modo necessaria ai fini del giudizio incidentale sulla ricusazione
demandato al collegio remittente, ma assumerebbe rilevanza solo nell'eventuale
giudizio di impugnazione che venisse promosso, e la cui ammissibilità sarebbe
condizionata alla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma impugnata, nella parte in cui esclude l'impugnazione (cfr. sentenza n.
336 del 1995; ordinanze n. 13 del 1990 e n. 337 del 1994).
7.– E' invece ammissibile la questione, anch'essa
proposta dalla Corte d'appello di Perugia, concernente l'art. 54, terzo comma,
del codice di procedura civile, ai cui sensi l'ordinanza, che dichiara
inammissibile o rigetta la ricusazione, "condanna la parte o il difensore
che l'ha proposta a una pena pecuniaria non superiore a lire ventimila".
La rilevanza della questione può ritenersi attuale,
in quanto la Corte d'appello procedente é chiamata ad emettere una pronuncia
che, nel caso di dichiarazione di inammissibilità o di rigetto della
ricusazione, dovrebbe necessariamente contenere la condanna alla pena
pecuniaria, condanna che non potrebbe essere oggetto di una pronuncia autonoma
e successiva. Nè potrebbe richiedersi che il giudice a quo, nel sollevare la
questione pregiudiziale rispetto alla pronunzia che é chiamato a rendere, debba
anticipare il proprio convincimento circa il merito della ricusazione e la
sussistenza delle eventuali condizioni che potrebbero condurre ad escludere
l'applicazione della pena pecuniaria, poichè tale convincimento, correttamente,
può trovare espressione solo nella pronuncia sulla ricusazione, che d'altra
parte, se di contenuto negativo, non potrebbe, in base alla norma vigente, non
applicare la sanzione.
8.– La questione, così ritenuta ammissibile, é
fondata.
La norma impugnata consente, contrariamente a quanto
dedotto dalla Corte remittente, una eventuale graduazione dell'importo della
pena pecuniaria, sia pure nei limiti della modesta somma massima stabilita,
dovendo la pena stessa essere "non superiore" (ma potendo essere,
invece, inferiore) a detta somma.
Ma ciò che il giudice non potrebbe mai fare é
omettere la condanna.
Tale rigido automatismo sanzionatorio non consente
di derogarvi nemmeno nel caso – che non si può a priori escludere – in cui la
ragione della inammissibilità o della infondatezza della ricusazione non fosse
percepibile dal ricusante all'atto della presentazione del ricorso.
Deve dunque valere, qui, la stessa ratio decidendi
che ha condotto la Corte, nella sentenza n. 186 del 2000, a dichiarare
l'illegittimità costituzionale dell'art. 616 del codice di procedura penale
nella parte in cui non prevedeva che la Corte di cassazione possa non
pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, nell'ipotesi di
ricorso dichiarato inammissibile, a carico della parte privata che non versasse
in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
Infatti, pur non essendo la previsione di una
sanzione pecuniaria, collegata alla reiezione del ricorso e intesa a
scoraggiare l'abuso o l'uso temerario o puramente dilatorio del potere, di per
sè in contrasto con l'assolutezza del diritto alla tutela giudiziaria,
garantito dall'art. 24 della Costituzione (cfr. sentenza n. 69 del 1964) – di
cui il potere della parte di proporre la ricusazione, a tutela del proprio
diritto ad un giudizio imparziale, costituisce esplicazione –, l’accedere della
condanna sempre e necessariamente alla reiezione del ricorso, indipendentemente
dalle circostanze del caso concreto, apprezzabili dal giudice, comporta una
irragionevole compressione di tale diritto, in contrasto con il principio di
eguaglianza. Si viene infatti a trattare allo stesso modo, sotto il profilo
dell'applicazione della sanzione, la posizione di chi ha proposto la
ricusazione ragionevolmente fidando nella sua ammissibilità e nella sussistenza
delle ragioni su cui essa si fondava, e quella del ricorrente che non versi in
tale situazione (cfr. sentenza n. 186 del 2000). Sono dunque violati gli articoli
3 e 24 della Costituzione.
L’eliminazione dell'automatismo comporta
l'attribuzione al decidente del potere di apprezzare, nel caso concreto, se
sussistano le condizioni per escludere la condanna alla pena pecuniaria, o se
invece la stessa debba trovare applicazione: e dunque alla necessità della
condanna, attualmente prevista, si deve sostituire il potere del giudice di
applicarla, apprezzando le eventuali circostanze del caso concreto che la
rendano ingiustificata.
9.– E' inammissibile la questione, sollevata dalla
Corte d'appello di Perugia, avente ad oggetto l'art. 30-bis (Foro per le cause
in cui sono parti magistrati) del codice di procedura civile, nella parte in
cui non prevede che il giudizio incidentale sulla ricusazione di un giudice
della sezione civile della corte d'appello venga devoluto alla cognizione di un
giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo di un
diverso distretto di corte d'appello, determinato ai sensi dell'art. 11 del
codice di procedura penale, allorquando nella sede del distretto non vi sia
altra "sezione diversa" da quella cui appartiene il magistrato
ricusato.
La norma dell'art. 30-bis é evocata dalla Corte
remittente anzitutto come tertium comparationis (peraltro improprio, come si é
detto) per censurare la diversa disciplina dell'art. 53, primo comma, del
codice di procedura civile, applicabile alla decisione sulla ricusazione: ma é
pacifico, per ammissione anche dello stesso rimettente, che essa non trova
applicazione nel giudizio incidentale sulla ricusazione, onde la questione
difetta di rilevanza. Quest'ultima é affermata dal giudice a quo "nel caso
di accoglimento della questione di costituzionalità del combinato disposto
degli artt. 53 e 54 cod. proc. civ.", evidentemente nel presupposto implicito
– pur non risultante chiaramente dalla configurazione data dal remittente a
tale ultima questione – che in luogo delle norme oggi vigenti debba risultare
applicabile alla fattispecie l'art. 30-bis medesimo. Non verificandosi tale
presupposto, data la dichiarazione di non fondatezza della predetta questione,
la carenza di rilevanza di questa ulteriore censura appare comunque palese.
Tale irrilevanza esime la Corte – a prescindere da
ogni altra considerazione sui limiti della questione proposta dalla Corte
remittente – dal prendere in esame la prospettazione avanzata dalla parte
privata, secondo cui l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis cod. proc.
civ. sussisterebbe anche con riferimento all’ipotesi in cui vi sia nella Corte
d’appello una sezione civile diversa da quella cui appartiene il magistrato
ricusato.
riuniti i giudizi,
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell'art.
54, terzo comma, del codice di procedura civile (Ordinanza sulla ricusazione),
nella parte in cui prevede che l'ordinanza, che dichiara inammissibile o
rigetta la ricusazione, "condanna" la parte o il difensore che l'ha
proposta ad una pena pecuniaria, anzichè prevedere che "può
condannare" la parte o il difensore medesimi ad una pena pecuniaria;
b) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'articolo 53, primo comma, del codice di procedura civile
(Giudice competente), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 104 e 111
della Costituzione, dalla Corte d'appello di Perugia con l'ordinanza in
epigrafe (reg. ord. n. 793 del 2000);
c) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'articolo 53, primo e secondo comma, del codice di procedura
civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 104 della Costituzione e
all'articolo 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955,
n. 848, dalla Corte d'appello di Roma con l'ordinanza in epigrafe (reg. ord. n.
519 del 2001);
d) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 53, secondo comma, del codice di procedura
civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 104 e 111 della
Costituzione, dalla Corte d'appello di Perugia con l'ordinanza in epigrafe
(reg. ord. n. 793 del 2000);
e) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 30-bis del codice di procedura civile
(Foro per le cause in cui sono parti magistrati), sollevata, in riferimento
agli articoli 3 e 104 della Costituzione e all'art. 6 della convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dalla Corte
d'appello di Perugia con l'ordinanza in epigrafe (reg. ord. n. 793 del 2000).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 marzo 2002.
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2002.