[Torna alla home]
Corte Suprema di Cassazione
Sentenza n. 6714 del 2 maggio 2003
RIFIUTO INGIUSTIFICATO DI
SVOLGERE MANSIONI INFERIORI
(Sezione Lavoro - Presidente G. Sciarelli - Relatore M. De Luca)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza ora
denunciata, il Tribunale di Palermo - in riforma della sentenza del Pretore
della stessa sede in data 18 febbraio 1993 - rigettava la domanda proposta da G.
C. contro la omissis
S.p.a. (gi� omissis
S.p.a.) - dalla quale dipendeva, con qualifica di impiegato di livello B2 - e
diretta ad ottenere, per quel che ancora interessa, l'annullamento oppure, in
subordine, la riduzione - in quanto, asseritamente, ingiustificata - della
sanzione disciplinare (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per tre
giorni) - che gli era stata inflitta per essersi rifiutato di dattiloscrivere,
siccome gli era stato richiesto da superiore gerarchico (capo vendita), una nota
(da sottoporre alla firma del capo area), relativa ad una "pratica errore"
(avente ad oggetto contestazioni mosse da un cliente), che riguardava "una
pratica affidata ad un agente a lui assegnato e rientrante nelle proprie
competenze per gli aspetti commerciali" - in base al rilievo che quel rifiuto
doveva ritenersi ingiustificato, come tale in violazione dell'obbligo di
diligenza (imposto dall'art. 2104, primo comma, c.c.), in quanto riguardava un
"compito accessorio rispetto alle mansioni di competenza" dello stesso
lavoratore..
Avverso la sentenza d'appello, G. C. propone ricorso per
cassazione, affidato ad un motivo.
L'intimata resiste con
controricorso.
Entrambe le parti hanno
presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l'unico motivo di
ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art.
360, n. 3, c.p.c.) - G. C. censura la sentenza impugnata per avere ritenuto
ingiustificato il proprio rifiuto di svolgere compiti di dattiloscrittura - che
non rientravano fra le mansioni proprie della qualifica di appartenenza, n�
contribuivano ad affinare la propria professionalit� - sebbene gli fossero stati
affidati in conformit� di prassi aziendale.
Il ricorso non � fondato.
2. Nel rispetto delle
disposizioni di legge in materia (art. 2103 c.c.) - come integrate dalla
(eventuale) disciplina collettiva, in senso (necessariamente) pi� garantistico a
favore del lavoratore (vedi Cass. n. 1563-94, 11339-94) l'esercizio dello ius
variandi rientra nella discrezionalit� del datore di lavoro, che non � di per s�
sottratta - in linea generale - all'osservanza dei doveri di correttezza e buona
fede e, per il caso di violazione, al rimedio del risarcimento dei danni (vedi,
per tutte, Cass., sez. unite, 10178-90, 494-2000, sez. semplici 6763/2002,
682-2001, 11291, 8468-2000).
Tuttavia le clausole generali di correttezza e buona fede -
che operano p nell'ambito sia dei singoli rapporti obbligatori (art. 1175 c.c.),
sia del complessivo assetto di interessi sotteso all'esecuzione del contratto
(art. 1375 c.c.) - non introducono nei rapporti giuridici diritti ed obblighi,
diversi da quelli legislativamente o contrattualmente previsti, ma sono
destinate ad operare all'interno dei rapporti medesimi, in funzione integrativa
di altre fonti, con la conseguenza che rilevano - secondo la giurisprudenza di
questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n.4570-96 delle sezioni unite,
anche in motivazione, e n. 3775-94, 9867-98, 15517-2000 delle sezioni semplici)
- soltanto come modalit� di comportamento della parti, ai fini della concreta
realizzazione delle rispettive posizioni di diritto o di obbligo, ed - in quanto
attengono alle modalit� comportamentali ed esecutive del contratto, quale a esso
� stato stipulato dalle parti - si pongono nel sistema - come limite interno di
ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente assunta
o legislativamente imposta, appunto - cos� concorrendo, da un lato, alla
relativa conformazione, in senso (eventualmente) ampliativo o restrittivo
rispetto alla fisionomia apparente, e, dall'altro, consentendo al giudice di
verificarne la coerenza con i valori espressi nel rapporto.
Ne risulta garantita, per tale
via, l'apertura del sistema giuridico ad un rapporto dialettico costante con il
contesto socio - economico e culturale di riferimento.
Nella dedotta fattispecie,
tuttavia, il comportamento dei lavoratore risulta in contrasto con le
disposizioni di legge in materia (art. 2103 c.c.), senza che sia all'uopo
necessario scrutinare circa la configurabilit� della violazione di clausole
generali e, segnatamente, dei doveri di correttezza e buona fede (sul punto,
vedi, per tutte, Cass. 2948/81, 10187/2002), nonch� circa i rimedi apprestati
dall'ordinamento per tale violazione.
3. Infatti l'esercizio dello
ius variandi , affidato alla discrezionalit� del datore di lavoro, risulta nella
specie rispettoso delle regole di fonte legale - che lo governano - e,
segnatamente, della riconducibilit� o, comunque, della equivalenza della
mansione (di dattiloscrittura) - di cui si contesta l'assegnazione - rispetto
alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza dello stesso lavoratore.
Una volta che l'attivit�
prevalente ed assorbente del lavoratore rientri fra le mansioni corrispondenti
alla qualifica di appartenenza, non viola i limiti esterni dello ius variandi -
n� frustra la funzione di tutela della professionalit�, che ne risulta
perseguita - l'adibizione del lavoratore stesso a mansioni inferiori, purch� si
tratti di mansioni che - oltre ad essere marginali ed accessorie, rispetto a
quelle di competenza (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. n. 7821 /2001,
2045/98, 6464/93, 3845/92) - non rientrino nella competenza specifica di altri
lavoratori di professionalit� meno elevata (vedi Cass. n. 3845/92, cit.).
Tanto basta per ritenere
ingiustificato il rifiuto di svolgere quelle mansioni inferiori e, di
conseguenza, sorretta da giustificazione la sanzione che venga inflitta per il
rifiuto.
Non rileva in contrario, infatti, la circostanza che il
prospettato comportamento datoriale - pienamente legittimo, per quanto si �
detto - non abbia carattere meramente straordinario, ma corrisponda ad una
diffusa prassi aziendale.
La sentenza impugnata non si
discosta dai principi di diritto enunciati e non merita, quindi, le censure che
le vengono mosse dal ricorrente.
4. Infatti non � in
discussione, nella specie, l'adibizione - prevalente ed assorbente, in una
parola normale - del lavoratore a mansioni corrispondenti alla qualifica di
appartenenza.
Coerentemente, le mansioni
inferiori (di dattiloscrittura) - delle quali si contesta l'assegnazione -
risultano meramente marginali.
Inoltre non � stato investito
dal ricorso - sotto l'unico profilo, deducibile in sede di legittimit�, del
vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) - l'accertamento di fatto che il
rifiuto del lavoratore (di dattilografare) concerneva un "compito accessorio
rispetto alle mansioni di competenza", in quanto relativo ad una una nota (da
sottoporre alla firma dei capo area), attinente ad una "pratica errore" (avente
ad oggetto contestazioni mosse da un cliente), che riguardava, appunto, "una
pratica affidata ad un agente a lui assegnato e rientrante nelle proprie
competenze per gli aspetti commerciali".
In altri termini, la nota non
pu� non rientrare nelle "mansioni di competenza" dei lavoratore - in quanto
attinente ad "una pratica affidata ad un agente a lui assegnato e rientrante
nelle proprie competenze per gli aspetti commerciali" - e la forma di scrittura
relativa (dattiloscrittura, appunto) risulta - secondo l'accertamento di fatto
del Tribunale - meramente accessoria rispetto alle stesse mansioni.
Peraltro non risulta neanche
prospettato che, nella specie, la dattiloscrittura rientrasse nella competenza
specifica di altri dipendenti: in altri termini, il lavoratore, di cui si
discute, non disponeva - a quanto consta - di un servizio di dattiloscrittura,
affidato ad altri lavoratori.
Tanto basta per ritenere
legittima la sanzione disciplinare irrogata (sospensione dal lavoro e dalla
retribuzione per tre giorni). N� risulta in alcun modo motivata l'asserita
eccessivit� della sanzione medesima, della quale si chiede, in subordine, la
riduzione.
5. Il ricorso, pertanto, va rigettato.
Sussistono, tuttavia, giusti
motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del giudizio di
cassazione (art. 92 c.p.c.).
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso;
Compensa integralmente fra le parti le spese del giudizio di cassazione.