A seguito dell'intervenuta depenalizzazione l'ingiuria non è penalmente perseguibile, ma restano ferme altre fattispecie di reato

di Lucia Izzo - L'offesa rivolta a un vigile o un poliziotto non è più reato poichè, a seguito del corposo intervento di depenalizzazione recentemente attuato (per approfondimenti: "Depenalizzazione: ecco la lista completa dei 41 reati cancellati") l'ingiuria non rientra più tra i delitti perseguibili penalmente, ma comporta soltanto una sanzione pecuniaria.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, V sezione penale, nella sentenza n. 35119/2016 (qui sotto allegata). Il ricorrente era stato riconosciuto colpevole e condannato a pena di giustizia, oltre che al risarcimento del danno, per il delitto di cui all'art. 594, 61 n. 10, c.p., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, offendeva l'onore ed il decoro degli ufficiali ed agenti di P.G. con le frasi "pezzi di merda... polizia di merda ....ve la faccio pagare non capite un cazzo", con l'aggravante di aver commesso il fatto contro pubblici ufficiali nell'esercizio delle funzioni.

La sentenza impugnata va annullata senza rinvio in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato, a seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016.

Come noto, infatti, la fattispecie di cui all'art. 594 cod. pen., risulta abrogata dall'art. 1 del citato decreto, entrato in vigore in data 6 febbraio 2016 a seguito di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22/01/2016.

In sostanza l'offesa all'onore e al decoro dei poliziotti non è più penalmente rilevante, anche se c'è l'aggravante di aver pronunciato le frasi ingiuriose mentre gli agenti e gli ufficiali stavano esercitando le proprie funzioni.

Diverso, invece, è il caso della minaccia, che rappresenta ancora un reato perseguibile, così come la violenza, la resistenza a pubblico ufficiale e l'oltraggio, rispettivamente presi in considerazione dagli artt. 336, 337 e 341-bis c.p. (per approfondimenti vedi anchei: L'oltraggio a pubblico ufficiale).

Nella pronuncia in esame gli Ermellini analizzano dettagliatamente la questione relativa all'incidenza sulle statuizioni civili scaturenti dalla sentenza di condanna pronunciata in entrambi i gradi di merito.

Come noto, evidenzia il Collegio, la revoca della sentenza

di condanna per abolitio criminis ai sensi dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata.

A fondamento dell'illustrato principio viene osservato che l'abrogazione della norma penale in presenza di una condanna irrevocabile comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell'esecuzione limitatamente ai capi penali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo secondo le norme del codice di procedura civile: sicché se vi è stata costituzione di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni a carico dell'imputato o del responsabile civile, questa statuizione resta ferma.

Tuttavia detti principi trovano un limite applicativo nei casi in cui l'abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, in ragione del combinato disposto degli artt. 185 cod. pen., 74 e 538 cod. proc. pen., considerato che nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l'esercizio nel processo penale dell'azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito.

Il collegio, dopo un'articolata analisi, arriva in conclusione a ritenere che l'assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall'art. 9, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2016 deve far propendere per la soluzione secondo cui costituisce onere della parte offesa quello di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l'irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili; la parallela regola individuata per la depenalizzazione pertanto, deve essere ritenuta un'eccezione, nominativamente prevista, alla disciplina generale di cui all'art. 538 cod. proc. pen., secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo quando pronuncia sentenza di condanna, e come tale non suscettibile di applicazione analogica.

Sotto altro profilo, va infine considerato che l'art. 12, comma 1 del d.lgs. n. 7 prevede il potere - dovere del giudice di applicare le cd. sanzioni pecuniarie civili ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, con la conseguenza che l'applicazione analogica dell'art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016 anche nei procedimenti aventi ad oggetto reati abrogati dal d.lgs. n. 7, imporrebbe alla Corte di Cassazione, quale giudice dell'impugnazione, di compiere valutazioni di merito, alla stregua dei criteri di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 7, ovvero di provvedere alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie; il che, evidentemente, non appare affatto in linea con la struttura del giudizio di legittimità.


Ne deriva, conclusivamente, che la soluzione da adottare, considerato il silenzio del legislatore, appare quella della generale caducazione delle statuizioni civilistiche per effetto dell'abrogazione del reato oggetto del procedimento. Nel caso di specie, pertanto, ne consegue l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio, ai sensi dell'art. 620, lett. a), cod. proc. pen., perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Cass., V sez. pen., sent. n. 35119/2016

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