Collaboratori di giustizia e testimoni: demonizzati e variamente interpretati.

(dott.ssa Cesira Cruciani)


Uomini e donne del mondo della politica, della magistratura, delle forze dell’ordine, della società civile, oggi non sarebbero vive se i collaboratori o, per dirla in termini giornalistici, i “pentiti”, non avessero raccontato ciò che sapevano della struttura criminale alla quale appartenevano. Eppure, il “pentitismo” è stato spesso demonizzato e variamente interpretato.

I collaboratori non sono certo persone integerrime, hanno commesso reati, anche atroci, ma le loro dichiarazioni hanno spesso evitato omicidi, stragi, hanno fatto ritrovare depositi di armi, hanno sgominato traffici di droga. Ascoltare le loro dichiarazioni e riscontrarle con dati oggettivi è dunque importante.

La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso nel 1991 ha scoperto – con l’uccisione di Falcone e Borsellino – la figura dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. I collaboratori di giustizia (i “pentiti”) sono ex membri di organizzazioni criminali eversive che hanno deciso di uscire dalla malavita. “Pentendosi” danno informazioni alle forze dell’ordine per contrastare l’attività della mafia o di gruppi terroristici. I testimoni di giustizia sono invece cittadini non appartenenti alla mafia o ad organizzazioni eversive: sono testimoni o vittime di reati commessi da mafiosi che decidono di denunciare l’accaduto. Entrambi i soggetti forniscono contributi spesso decisivi alle indagini e per questo sono esposti a ritorsioni.

La legge 82 del 1991, prima in Europa, ha individuato le istituzioni deputate ad organizzare le misure di protezione della commissione centrale per la definizione dell’applicazione delle speciali misure ed i sistemi di protezione cui collaboratori e testimoni possono godere: cambio di identità, residenza, sostegno economico, e (per i collaboratori) beneficiare di procedimenti penali a loro carico.

Le modifiche della legge e la sua messa in pratica si sono susseguite nel corso degli anni. Leonardo Vitale, il primo pentito della storia della mafia anticipò i tempi della legge e venne preso per pazzo per le dichiarazioni che risultavano assurde e che solo in seguito ebbero conferma. Ricordiamo i collaboratori storici come Buscetta (il primo a svelare al giudice Falcone i segreti di Cosa Nostra), poi Contorno, Mannoia, Mutolo, Messina, Brusca, Calderone. Dopo un periodo di scarsa fiducia della legge del 1991, si è assistito all’incremento del numero dei collaboratori e dei testimoni di giustizia che ha raggiunto il culmine a metà del 1995.

I primi collaboratori e testimoni hanno però riscontrato diversi problemi relativi ai programmi di protezione. Poco sostegno psicologico e difficoltà economiche (il tenore di vita precedente non veniva garantito con la nuova identità), difficoltà ad accedere al sistema sanitario, difficoltà ad iscrivere i figli a scuola, poca discrezione da parte delle forze dell’ordine sull’anonimato. Per contro l’opinione pubblica non ha accolto positivamente la figura dei collaboratori. La via della collaborazione è stata percepita come una scelta di comodo, una scappatoia spesso per chi autore di crimini efferati, voleva evitare il carcere e vivere a spese dello Stato.

La normativa del 1991 aveva il proprio limite nell’assimilare alla posizione dei collaboratori quella dei testimoni, non delimitando i termini della collaborazione e della protezione. Tale limite ha trovato in una risposta con la legge di modifica 45 del 2001, che ha distinto la figura dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, ha dato la possibilità di capitalizzare l’indennizzo economico mensile fornito in un’unica somma in modo da poter dare la possibilità ai testimoni di intraprendere una nuova attività economica, ha fissato in 6 mesi il tempo massimo entro il quale devono essere fornite informazioni riguardo alla mafia, ha stabilito un periodo massimo di cinque anni la durata del programma di protezione.

Questa legge ha risolto alcuni dei problemi rilevati con l’applicazione della legge del 1991, ma ne ha creati altri. Ad esempio, l’aver fissato a sei mesi il tempo massimo entro cui rilasciare le proprie dichiarazioni, risponde sì all’esigenza di evitare il fenomeno delle testimonianze “a rate”, ma non permette di utilizzare deposizioni significative fornite in questo limite di tempo.

E’ molto facile, ma demagogico, definire indistintamente i pentiti come “loschi figuri e delatori”, ma ciò non corrisponde al vero. Molte volte la verità è stata raggiunta grazie alle dichiarazioni dei pentiti, non bisogna dimenticare che collaborare con la giustizia contro la mafia può significare condannare a morte sé e i propri famigliari, lo provano le decine e decine di persone che la mafia ha ucciso per intimidazione e rappresaglia, l’onestà della propria coscienza non ha prezzo.