Ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della Legge di Riforma n°69 del 2009, si applica la norma sul c.d. calendario del processo. A mente dell'Art. 81-bis Disposizioni per l'Attuazione del c.p.c. e disposizioni transitorie, inserito dalla riforma processualcivilistica estiva, il giudice deve ottimizzare i tempi del processo programmando le scadenze delle attività che pronostica di compiere. L'abitudine agli slogan a costo zero ha fatto sì che nessuno si sia sorpreso nel leggere che l'istruttore deve apprestare un congegno che, non ci vuole un oracolo per predirlo, verrà bloccato da un granellino di sabbia. Infatti, è pur vero che i termini del processo potranno essere prorogati quando sussistono "gravi motivi sopravvenuti", ma come farà il giudice a preventivare la lunghezza di una prova? A tacer del fatto che il legislatore si è incartato in maniera sesquipedale tra i due antitetici concetti di termini perentori ed ordinatori stabilendo, in pratica, che i termini perentori (in effetti, se ho l'onere rigoroso di rispettare il limite temporale quel termine tale mi appare prima facie) sono prorogabili! Vediamo in concreto che accade: le parti si scambiano la triplice memoria ai sensi dell'Art. 183 c.p.c., sesto comma, ed il giudice istruttore in quel momento potrà rendersi conto in modo compiuto di quale sia il perimetro del giudizio; valuterà complessità, natura ed urgenza; il giudice trattiene la causa a riserva (esiste una doppia scuola di pensiero: chi si riserva sin da subito quale epilogo della primissima udienza, chi fissa un'udienza in cui, vuoi o non vuoi, è agevole prevedere che si riserverà: chi studia più in anticipo i processi?); entro trenta giorni, termine stabilito dall'ultima parte del settimo comma del medesimo Art. 183 c.p.c., il giudice scioglierà la riserva ed ammetterà tendenzialmente le prove costituende che opina ammissibili e rilevanti, rigettando il soverchio.
Qui viene il bello: il magistrato dovrà inglobare in tale ordinanza il famigerato calendario del processo con l'indicazione delle attività da compiere e delle udienze successive. Un rito più da sciamano che da giurista.
Pleonastico soggiungere che, non ci vuole un indovino per prevederlo, sarà sufficiente un collegio penale extra, una gravidanza, ma finanche una banale influenza dell'istruttore, un teste malmesso in salute, per mettere a soqquadro tutta l'ambiziosa programmazione, stroncando ogni velleità di razionalizzazione. Sin da principio avevo escluso che il calendario del processo si applicasse al processo sommario di cognizione. Ho piacere che di identico parere sia il Tribunale di Varese in persona del giudice monocratico Dott. Giuseppe Buffone. Infatti, con ordinanza di data 18 novembre 2009 l'autorevole magistrato reputa che il calendario del processo non si applichi al rito semplificato dal momento che "la calendarizzazione delle udienze risponde all'esigenza di programmare, con le parti, la durata del procedimento civile, con l'indicazione dei singoli arresti procedimentali che si andranno a seguire nel tempo e tanto al fine di garantire un tempo ragionevole di definizione del giudizio". Prosegue l'Estensore e Pubblicista che "se, allora, questa è la ratio, essa non si rileva sintonica con il giudizio sommario ove il rito è già per sua natura celere e snello; ma v'è di più: l'introduzione del calendario andrebbe a vulnerare la stessa natura ontologica del rito sommario". In buona sostanza, si andrebbe ad ammantare di formalismo quel che per definizione è deformalizzato! Il giudice non deve, pertanto, fissare nessunissimo calendario quando tratta processi semplificati.
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