La sentenza che si annota si pone in linea con il nuovo dettato legislativo in materia di riforma del diritto fallimentare. L'art. 49, prima della modifica apportata dall'art. 46 del D. L.vo 09-01-2006 n. 5, disponeva: "Il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza senza permesso del giudice delegato, e deve presentarsi personalmente a questo, al curatore o al comitato dei creditori ogni qualvolta è chiamato, salvo che, per legittimo impedimento, il giudice lo autorizzi a comparire per mezzo di mandatario. Il giudice può far accompagnare il fallito dalla forza pubblica, se questi non ottempera all'ordine di presentarsi". Dalla norma sopracitata appariva chiaro il precetto contenuto: il fallito per allontanarsi dalla sua "residenza
" doveva richiedere il permesso al giudice delegato. E residenza, secondo l'indicazione che ci perviene dal II° comma dell'art. 43 del codice civile, è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale, mentre domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Così come appariva del tutto evidente che "allontanarsi dalla residenza" non poteva che significare un vero e proprio cambiamento di città. La condotta illecita, cioè, si perfezionava ogni qualvolta l'allontanamento comportava un vero e proprio trasferimento di città tale da determinare l'irreperibilità. Nel caso esaminato dal Supremo Collegio, era stato accertato che la ricorrente non aveva cambiato la propria residenza
atteso che aveva sempre vissuto sin dalla data della dichiarazione del fallimento nella stessa città, limitandosi semplicemente a mutare la via senza aver chiesto il relativo permesso al giudice delegato. Deve osservarsi che, com'è noto,la residenza corrisponde a una situazione di fatto (res facti) ben definita ed è rilevante specie in tema di procedura civile per la determinazione della competenza territoriale. A conforto di ciò vi è la disposizione di attuazione dell'art. 31 del codice civile
che recita: "Il trasferimento della residenza [ 44 c.c.] si prova con la doppia dichiarazione fatta al comune che si abbandona e a quello dove s'intende fissare la dimora abituale. Nella dichiarazione fatta al comune che si abbandona deve risultare il luogo in cui è fissata la nuova residenza." Appare superfluo evidenziare che la legge fa riferimento al comune quale luogo che si abbandona e quale luogo dove s'intende fissare la nuova dimora abituale. Quindi,non e' il cambiamento di via nella stessa città che fa cambiare giuridicamente la residenza. Ma la sentenza della Suprema Corte ,unitamente alla novella legislativa,pone fine alla vecchia questione della compatibilità della limitazione della libertà di locomozione del soggetto fallito, imposta dall'abrogato art. 49 della Legge sul fallimento, con il precetto costituzionale contenuto nell'art. 16. L'attenzione,sul punto, era già stata richiesta al giudice delle leggi nel lontano 1962. La Corte Costituzionale composta, tra l'altro, allora da illustri costituzionalisti (Mortati - Sandulli) dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49 del R.D. 16-03-1942 n. 267 in riferimento all'art. 16 della Costituzione poiché ritenne che la vecchia norma aveva" funzione strumentale in relazione ai fini assegnati ai procedimenti concorsuali e impone al fallito limitazioni analoghe a quelle previste in quei processi concernenti lo stato delle persone, nei quali la persona è contemporaneamente soggetto del processo e mezzo necessario perché questo possa conseguire i propri fini. Il controllo continuativo del giudice delegato e del Tribunale sulla persistenza delle ragioni che rendono necessaria la presenza del fallito, controllo che questi può in ogni momento provocare, chiedendo al giudice i permessi consentiti dalla legge, costituisce sufficiente garanzia che la limitazione ai movimenti del fallito sia contenuta entro i termini segnati dalle esigenze del migliore risultato del procedimento concorsuale." La stessa questione fu riproposta molto tempo dopo e con motivazione succinta (ordinanza n. 103 del 25-06-1980) la Corte Costituzionale sbarrò la strada al Pretore di Milano( che dubitava della legittimità costituzionale dell'art. 49 L. 267/42) atteso che non erano stati prospettati nuovi profili tali da indurre la Corte a modificare la propria giurisprudenza. Occorrerà un notevole lasso di tempo per indurre il legislatore a cambiare rotta ed avvertire l'esigenza di modificare la norma in ragione del mutamento della società moderna. Infatti,la nuova disposizione al I° comma dell' articolo 46 del D.L.vo 9 gennaio 2006 n.5 stabilisce che "l'imprenditore del quale sia stato dichiarato il fallimento, nonché gli amministratori o i liquidatori di società o enti soggetti alla procedura di fallimento sono tenuti a comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio". Cosicché, appare evidente che il legislatore ora ha previsto per il fallito solo un onere di comunicazione al curatore di ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio,eliminando così l'odioso divieto di allontanarsi dalla propria residenza. Ritenere ancora il fallito quale soggetto con ridotta capacità negoziale e quindi "incapace" ad esercitare per esempio talune professioni (avvocato, geometra, titolare di farmacia etc..) e impedirlo nei movimenti non poteva che essere anacronistico e devastante.
Avv. Giuseppe DACQUI'

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