Il detenuto troppo grasso è a rischio "patologie" e "complicazioni" che non possono essere ignorate e che suggeriscono la necessità di una pena alternativa al carcere. Lo sottolinea la Corte di Cassazione in una sentenza con la quale ha accolto il ricorso di un detenuto di 39 anni di 210 chili di peso al quale il Tribunale di sorveglianza di Catania aveva negato la detenzione domiciliare
, sostenendo che le patologie accusate non erano "incompatibili con il regime carcerario". Non l'ha pensata così la Prima sezione penale della Suprema Corte, che ha accolto il ricorso del detenuto, rinviando il caso al Tribunale di sorveglianza di Catania. A Giovanni P., il Tribunale di sorveglianza catanese, nel giugno 2005, aveva negato la richiesta di una pena alternativa a quella carceraria nonostante fosse stata esibita una relazione sanitaria con le patologie causate dall'eccessivo peso. Contro il no del Tribunale, la difesa del detenuto ha insistito con successo in Cassazione. La Suprema Corte, infatti, giudicando fondato il ricorso ha sottolineato che il tribunale in maniera "non congrua" non ha considerato la relazione sanitaria che spiegava come il detenuto "dato il suo peso corporeo (kg 210), le sue patologie e le sue complicazioni, rientra nella categoria dei soggetti ad alto rischio d'accidenti cerebro vascolari e che pertanto sarebbe auspicabile che lo stesso potesse godere di strumenti alternativi di pena rispetto alla detenzione". Del resto, annotano ancora gli 'ermellini' nella sentenza 25114, il Tribunale non ha nemmeno preso in considerazione "la perizia medico legale che si era pronunciata per l'incompatibilità delle condizioni di salute" del detenuto "con il regime di vita carcerario".

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