Con la sentenza 6326/05, la Corte di Cassazione si è pronunciata chiaramente nel senso che anche qualora il lavoratore non abbia ? nell'atto introduttivo del giudizio ? qualificato expressis verbis come ?mobbing?il comportamento giuridico del datore di lavoro o dei propri superiori o colleghi, ma abbia fornito la prova degli atti persecutori e sistematici finalizzati alla sua estromissione dal processo produttivo, questa condotta costituisca comunque iniuria alla persona, con conseguente diritto al risarcimento del danno subito. La Suprema Corte, infatti, traccia una vera e propria linea ? guida al riguardo, individuando il ?globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro? come criterio in base al quale riconoscere come sussistente nelle singole fattispecie il mobbing
, prescindendo in toto, ai fini della decisione, dall'uso del nomen iuris. Nel caso di specie, tale ?globale comportamento antigiuridico? era consistito in scherzi verbali e azioni di disturbo progressivamente sempre più frequenti, posti in essere dai colleghi con il preciso scopo di discriminare ed emarginare la persona e sminuire il suo ruolo all'interno dell'azienda, tanto da produrre la sua estraneamento dal luogo di lavoro. Di tali comportamenti, secondo al Cassazione, non potevano certamente dirsi estranei i responsabili dell'azienda che, essendo pienamente coinvolti dai comportamenti dei propri colleghi e subalterni, avrebbero dovuto adottare tutte le misure atte a tutelare l'intergità psico ? fisica e la personalità morale dei lavoratori. (Avv. Rossi Valentina - staff LaPrevidenza.it)
(Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 23 marzo 2005, n° 6326)

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