Per la Cassazione, la Corte d'Appello non può svalutare le risultanze probatorie che evidenziano il timore della vittima e il cambiamento delle sue abitudini

di Lucia Izzo - Messaggi intimidatori e pedinamenti messi in atto da una donna nei confronti di un'altra donna, tali da modificare le abitudini di vita della "vittima", possono legittimamente fondare il reato di stalking; se la Corte d'Appello sceglie di modificare la decisione del Tribunale escludendo l'ipotesi degli atti persecutori, deve confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione.


Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 44355/2016 (qui sotto allegata). Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello aveva parzialmente riformato la sentenza del Tribunale e aveva ritenuto configurabile non il reato di atti persecutori, ma quelli diversi di ingiuria e molestie.


Da qui, l'impugnazione del Pubblico Ministero che denunzia la mancanza e manifesta illogicità della motivazione, essendo stato omesso qualunque riferimento alle risultanze processuali valorizzate, invece, dal giudice di primo grado, vale a dire: il numero ed il tenore dei messaggi inviati dall'imputata alla parte offesa, dal contenuto fortemente denigratorio, minatorio ed offensivo; l'intrusione sistematica nella vita della parte offesa, attuata tramite pedinamenti ed appostamenti; il timore, in capo alla vittima, per la propria incolumità e la necessità di modificare il proprio stile di vita, così da scongiurare qualunque contatto, anche causale, con l'imputata.


In effetti, rammenta la Cassazione accogliendo il gravame, il giudice di appello che, in radicale riforma della sentenza di condanna di primo grado, pronunci sentenza

di assoluzione ha l'obbligo di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di condanna, essendo necessario scardinare l'impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova.


Nel caso di specie tale principio non è stato rispettato, poichè la Corte territoriale ha analizzato soltanto una parte delle prove indicate dal giudice di primo grado, opponendo ad una valutazione organica di esse un esame frazionato e negando, infine, l'esistenza della prova dell'evento dei reato.


Va ricordato, prosegue il Collegio, che "In tema di atti persecutori, la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante".


Appare evidente che i comportamenti enunciati, se provati, possano costituire fondamento del reato di stalking e, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata è errata laddove apoditticamente limita a due sole occasioni i contatti fra imputata e parte offesa, mentre nella sentenza di primo grado si fa riferimento ad una situazione continua e protratta nel tempo, svaluta il tenore intimidatorio e denigratorio dei messaggi, apoditticamente affermando che non vi è prova che l'imputata abbia inviato il messaggio "ti uccido" e trascurando i messaggi in cui l'imputata minaccia di morte la madre della parte offesa per mano del compagno convivente.


Ancora sbaglia la Corte territoriale nell'escludere la prova dell'evento del reato affermando che "il delitto non è apprezzabile sotto un profilo soggettivo se la soggettività non ha radici in una comprovata oggettività", dimenticando che la prova dello stato di ansia e di paura può essere dedotta dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente e, comunque, apoditticamente svalutando le risultanze enunciate dal Tribunale, secondo cui la parte offesa aveva modificato il proprio stile di vita rinunciando spesso ad uscire, tenendo sempre chiuse le finestre quando era in casa e cambiando i percorsi nelle strade che percorreva abitualmente.


Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello per nuovo esame.

Cass., V sez. pen., sent. 44355/2016

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