Incongruenze e ipocrisie nel regolamento che detta le nuove specializzazioni forensi

di Angelo Casella - Quo vadis … Italia? E' dato comunemente per scontato (quasi un luogo comune) il distacco esplicito dei politici dall'interesse comune, dalla volontà espressa dal popolo, e da qualsiasi principio di responsabilità verso la società tutta. 

Non solo, quest'ultima, viene sempre più trasformata in un luogo controllato dal potere economico, che finanzia e sostiene un sistema politico che agisce solo a suo favore. Ogni giorno di più si evidenzia una frattura radicale fra scelte politiche (influenzate dal denaro) e opinione pubblica.

Inoltre, sono state instaurate forme di imposizione culturale intese a realizzare un approfondito controllo sociale. 


Tutto ciò si è verificato in modo accelerato a partire dagli anni '70, che furono caratterizzati da profondi e radicali mutamenti economici e sociali. 

Globalizzazione, deregolamentazione della finanza, abnorme sviluppo di quest'ultima, accordi internazionali che esautorano i parlamenti nazionali, e favoriscono le grandi corporations, hanno indotto una forte concentrazione della ricchezza. Fenomeno che, a sua volta, implica concentrazione del potere politico. 


Molte delle fondamentali, storiche, acquisizioni realizzate dal mondo del lavoro, anche autonomo, sono state cancellate o fortemente ridotte. Il tutto nonostante che il maggior merito dello sviluppo economico registrato in quegli anni si debba ascrivere proprio al lavoro e, in particolare, al basso livello delle retribuzioni. 

Significativo in proposito l'intervento di Greenspan al Congresso statunitense. Questi ha esplicitamente sottolineato che la forte crescita dell'economia era dovuta "alla crescente insicurezza del lavoratore".

Infatti, se il prestatore d'opera è posto in condizioni di incertezza, non avanza pretese, non domanda aumenti salariali e rinuncia anche alle tutele più elementari.


E proprio per instaurare questo clima di precarietà, si è voluta l'abolizione del famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Il fine era di generare paura, senso di dipendenza, insicurezza, ed arrivare così ad instillare quel senso di instabilità che può consigliare al lavoratore di accettare qualunque clausola contrattruale e qualunque condizione operativa. 

Con la stessa finalità, si sono aboliti i contratti nazionali e, invece di abolire il precariato, lo si è istituzionalizzato, imponendo forme contrattuali che letteralmente consegnano il lavoratore alla discrezionalità del datore di lavoro. 

Il governo, invece di tutelare la parte più debole del rapporto di lavoro, ha tolto ogni argine alla sua posizione di forza. 


I sindacati, nel frattempo, sono stati decimati, ignorati o accantonati. Una forma di violenza istituzionale subdola e sinistra. 

Ma non basta capire come vanno le cose, bisogna cambiarle. E qui siamo al punto più delicato: i meccanismi democratici sono diventati ambigui e sempre meno definiti.

Si parla di democrazia e di "Stato democratico", ma il solo momento in cui è previsto che si tenga conto della volontà dei cittadini è quello delle elezioni.


Ma chi viene eletto, e come? Si possono eleggere solo personaggi già accuratamente selezionati dagli organismi dei partiti e assorbiti da torbidi meccanismi interni. Nessuno può essere eletto al di fuori del recinto partitico (salvo il caso unico del M5S). Per assurgere ad incarichi di responsabilità politica, anche dentro il partito, occorre molto denaro. E ciò apre le porte ad un sistema di finanziamento che, nella sostanza, comporta la vendita del candidato.


E come si svolgono le elezioni?

I candidati espongono, in comizi o alla televisione, una serie di mirabolanti progetti, si auto-elogiano per la ricchezza, varietà ed importanza degli obbiettivi che promettono (e che nessuno ha elementi per credere che rispetterà). Tutto è predisposto da specialisti della comunicazione, per incantare gli uditori. Conta più lo spettacolo dei contenuti.


Tutto questo non è democrazia.

In condizioni di normalità democratica, dovrebbero essere previste e programmate delle riunioni di cittadini, coordinate a livello nazionale, per discutere e dialogare su che cosa debba essere fatto per risolvere i problemi del Paese. Su ciò che si vuole dal Parlamento.

E quindi votare coloro che si impegnano formalmente a realizzare gli obbiettivi indicati dalla gente.

Questo dovrebbe essere il primo passo. Il secondo, quello di stabilire forme di controllo sull'operato dei candidati.


Sopratutto, gli eletti debbono essere revocabili in qualsiasi momento. Per incapacità, indegnità o semplice perdita di fiducia.

Se un rappresentante politico non è revocabile, rimane libero di agire come vuole e, in pratica, diventa il padrone inamovile dell'elettorato, trasformandosi in un mandarino che risponde solo a sè stesso.

Questa libertà da ogni vincolo con l'elettorato rende impensabile che si realizzino riforme nell'interesse di tutto il Paese e non soltanto di chi può ricompensarle.


E le vere riforme. Vere nel senso di utili al bene comune, sono diverse da quelle che si vanno attuando. Parliamo del controllo e della regolamentazione della finanza, delle banche e dello stesso sistema partitico, della normativa fiscale e societaria, della disoccupazione, dell'ambiente, dell'accantonamento della c.d. austerità, dell'aumento dei servizi e dell'assistenza ai bisognosi, ecc.


Le riforme che si stanno realizzando danneggiano il Paese. Del resto, per capirne le finalità, è sufficiente guardare alle loro conseguenze.

L'abolizione del bicameralismo indebolisce il potere legislativo a fronte dell'esecutivo. Al pari della nuova legge elettorale e del paradossale "premio di maggioranza", si instaurano meccanismi autoritari che minano alla base la democrazia. Si realizzano strutture impositive atte ad abolire il dissenso, e che ci avvicinano pericolosamente a forme di dittatura surrettizia.


Assistiamo alla demolizione dei diritti elementari del mondo del lavoro, nel mentre che, in generale, ogni attività economica viene direttamente o indirettamente ricondotta nell'alveo della finanza.

Più che di riforme istituzionali, si direbbero interventi di lotta di classe.

Quella lotta che mira a cancellare la classe media, assai fastidiosa per il potere, per la sua matura consapevolezza culturale.


Sul piano culturale, il messaggio che - ormai da tempo - viene trasmesso dalle istituzioni al popolo è che ognuno deve occuparsi solo di sè stesso e di accumulare ricchezza con ogni mezzo. Non di creare una comunità di scambio e di mutuo supporto.


Ed è un serio pericolo (anche per la coesione sociale e per la stessa indipendenza della cultura) questa corsa al potere, questa ideologia del denaro, della uniformità del pensiero, della codificazione della conoscenza (a partire dalle Università, anzi, da certe Università).


La stessa politica estera è dettata da convenienze interne e da opportunità di potere di gruppo, non da una valutazione razionale degli interessi del Paese e della popolazione, in una proiezione strategica.


In queste condizioni, non si possono prevedere che disastri da quella più accentuata centralizzazione delle funzioni decisionali che è in corso di attuazione sia a livello centrale che periferico. La stessa abolizione del bicameralismo, le leggi-delega in bianco (in violazione del dettato costituzionale), i regolamenti parlamentari che assegnano corsie legislative preferenziali al governo, costituiscono un grave pericolo per la democrazia.


Un governo di aggressiva arroganza, guidato da un non-eletto (e quindi privo di orientamenti dall'elettorato), pretende di giustificare i propri eccessi normativi (veri e propri abusi di potere) elaborando una sorta di ideologia che vorrebbe richiamare una sorta di bene comune. Non è certo il primo caso che qualcuno dica alla popolazione che cosa deve preferire e che cosa le va bene, ma avremmo voluto augurarci che ciò non accadesse da noi e non nel nostro tempo.

E' vero che il meccanismo adottato è pur sempre lo stesso: attirare l'ambiente della "intellighenzia" con la prospettiva delle poltrone, del prestigio e del potere, disponendo quella "subordinazione controrivoluzionaria" che Connor C. O'Brien indicava tempo addietro come la massima minaccia odierna alla democrazia.


Effettivamente, la democrazia è in serio pericolo. Si fa ricorso a tutte le più collaudate forme di controllo del comportamento per neutralizzare l'effervescenza sociale originata dalla crisi economica (che non è affrontata in alcun modo), e ricondurre gli strati sociali in difficoltà a quella condizione di passività e rassegnazione auspicata per avere le mani libere.

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