Quando a volte la forma prevale sulla sostanza

Prof. Luigino Sergio - La categoria dell'inconferibilità degli incarichi è contenuta nel d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50 della legge 6 novembre 2012, n. 190 - in G.U. n. 92 del 14 aprile 2013, entrata in vigore il 4 maggio 2013). 

Ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 39/2013, comma 1, lett. g), per inconferibilità s'intende «la preclusione, permanente o temporanea, a conferire gli incarichi previsti dal presente decreto a coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico». 

Il capo I del titolo II del libro secondo del codice penale riguarda i seguenti delitti contro la pubblica amministrazione: art. 314. Peculato; art. 316. Peculato mediante profitto dell'errore altrui; art. 316-bis. Malversazione a danno dello Stato; art. 316-ter. Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato; art. 317. Concussione;art. 318. Corruzione per l'esercizio della funzione; art. 319. Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio; art. 319-ter. Corruzione in atti giudiziari; art. 319-quater. Induzione indebita a dare o promettere utilità; art. 320. Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio; art. 322. Istigazione alla corruzione; art. 322-bis. Peculato, concussione

, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri; art. 323. Abuso di ufficio; art. 324. Interesse privato in atti di ufficio; art. 325. Utilizzazione d'invenzioni o scoperte conosciute per ragione d'ufficio; art. 326. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio; art. 328. Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione; art. 329. Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica; art. 331. Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità. Art. 334. Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro
disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa; art. 335. Violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa

Il d.lgs. n. 39/2013 precisa all'art. 1, lett. c) che per «enti di diritto privato in controllo pubblico», s'intendono le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell'articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi; mentre la lett. f) dispone che per «componenti di organi di indirizzo politico», s'intendono le persone che partecipano, in via elettiva o di nomina, a organi di indirizzo politico delle amministrazioni statali, regionali e locali, quali Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, parlamentare, Presidente della Giunta o Sindaco, assessore o consigliere nelle Regioni, nelle Province, nei Comuni e nelle forme associative tra enti locali, oppure a organi di indirizzo di enti pubblici, o di enti di diritto privato in controllo pubblico, nazionali, regionali e locali.

Il d.lgs. n. 39/2013 all'art. 3, Inconferibilità di incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione, prevede che «a coloro che siano stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, non possono essere attribuiti: 

a) gli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali;

b) gli incarichi di amministratore di ente pubblico, di livello nazionale, regionale e locale;

c) gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello nazionale, regionale e locale;

d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico, di livello nazionale, regionale e locale;

e) gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali del servizio sanitario nazionale».

Ai sensi della L. 27 marzo 2001, n. 97 (in G.U. 5 aprile, n. 80 - Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, art. 3, Trasferimento a seguito di rinvio a giudizio), «salva l'applicazione della sospensione dal servizio in conformità a quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, quando nei confronti di un dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall'articolo 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, l'amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza. L'amministrazione di appartenenza, in relazione alla propria organizzazione, può procedere al trasferimento di sede, o alla attribuzione di un incarico differente da quello già svolto dal dipendente, in presenza di evidenti motivi di opportunità circa la permanenza del dipendente nell'ufficio in considerazione del discredito che l'amministrazione stessa può ricevere da tale permanenza».

Ai sensi dell'art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 39/2013 «ove la condanna riguardi uno dei reati di cui all'articolo 3, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97, l'inconferibilità di cui al comma 1 ha carattere permanente nei casi in cui sia stata inflitta la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro a seguito di procedimento disciplinare o la cessazione del rapporto di lavoro autonomo. Ove sia stata inflitta una interdizione temporanea, l'inconferibilità ha la stessa durata dell'interdizione. Negli altri casi l'inconferibilità degli incarichi ha la durata di 5anni».

I successivi commi 3, 4, 5, 6, 7 prevedono che: 

«3. Ove la condanna riguardi uno degli altri reati previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale, l'inconferibilità ha carattere permanente nei casi in cui sia stata inflitta la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro a seguito di procedimento disciplinare o la cessazione del rapporto di lavoro autonomo. Ove sia stata inflitta una interdizione temporanea, l'inconferibilità ha la stessa durata dell'interdizione. Negli altri casi l'inconferibilità ha una durata pari al doppio della pena inflitta, per un periodo comunque non superiore a 5 anni. 

4. Nei casi di cui all'ultimo periodo dei commi 2 e 3, salve le ipotesi di sospensione o cessazione del rapporto, al dirigente di ruolo, per la durata del periodo di inconferibilità possono essere conferiti incarichi diversi da quelli che comportino l'esercizio delle competenze di amministrazione e gestione. E' in ogni caso escluso il conferimento di incarichi relativi ad uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all'acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati, di incarichi che comportano esercizio di vigilanza o controllo. Nel caso in cui l'amministrazione non sia in grado di conferire incarichi compatibili con le disposizioni del presente comma, il dirigente viene posto a disposizione del ruolo senza incarico per il periodo di inconferibilità dell'incarico.

5. La situazione di inconferibilità cessa di diritto ove venga pronunciata, per il medesimo reato, sentenza anche non definitiva, di proscioglimento.

6. Nel caso di condanna, anche non definitiva, per uno dei reati di cui ai commi 2 e 3 nei confronti di un soggetto esterno all'amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico cui e' stato conferito uno degli incarichi di cui al comma 1, sono sospesi l'incarico e l'efficacia del contratto di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, stipulato con l'amministrazione, l'ente pubblico o l'ente di diritto privato in controllo pubblico. Per tutto il periodo della sospensione non spetta alcun trattamento economico. In entrambi i casi la sospensione ha la stessa durata dell'inconferibilità stabilita nei commi 2 e 3. Fatto salvo il termine finale del contratto, all'esito della sospensione l'amministrazione valuta la persistenza dell'interesse all'esecuzione dell'incarico, anche in relazione al tempo trascorso.

7. Agli effetti della presente disposizione, la sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., e' equiparata alla sentenza di condanna». 

L'Autorità Nazionale anticorruzione

Il d.l. 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, convertito con L. 11 agosto 2014 , n. 114, sopprime l'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) e trasferisce le sue competenze all'Autorità nazionale Anticorruzione (ANAC), la quale ha il compito di prevenire la corruzione all'interno delle pp.aa., nelle società partecipate e controllate attraverso l'attuazione della trasparenza grazie anche ai poteri di orientamento dei comportamenti e delle attività degli impiegati pubblici che essa ha.

Le funzioni di vigilanza e di controllo effettivo, non meramente burocratico e formalistico, sono divenute sia il criterio di orientamento dell'intera azione dell'Autorità, sia il criterio cui ispirare il piano di riordino che si sottopone al Presidente del Consiglio dei Ministri.

La missione istituzionale dell'ANAC viene individuata, in particolare nella prevenzione della corruzione nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, nelle società partecipate e controllate anche mediante l'attuazione della trasparenza in tutti gli aspetti gestionali, nonché mediante l'attività di vigilanza nell'ambito dei contratti pubblici, degli incarichi e comunque in ogni settore della pubblica amministrazione che potenzialmente possa sviluppare fenomeni corruttivi, evitando nel contempo di aggravare i procedimenti con ricadute negative sui cittadini e sulle imprese, orientando i comportamenti e le attività degli impiegati pubblici, con interventi in sede consultiva e di regolazione.

L'ANAC opera anche attraverso propri orientamenti che ci impongono una domanda preliminare: l'orientamento dell'ANAC è vincolante?

La risposta da fornire appare del tutto negativa, in quanto la natura dell'orientamento, a differenza di quanto avviene ei casi nei quali l'ANAC è tenuta per legge ad esprimere un parere con valenza endoprocedimentale (cfr. parere per la nomina dell'OIV ex art. 14 d.lgs. 150/2009).

Per altra via, conferma questa conclusione la verifica dei compiti assegnati ad ANAC dalla normativa vigente in materia di trasparenza (art. 45 d.lgs. 33/2013).

Gli orientamenti emanati dall'ANAC si inseriscono nell'ampia attività consulenziale di cui l'ANAC stessa ha dato conto nella relazione sull'attività 2013.

L'orientamento è dunque un parere facoltativo e non vincolante; facoltativo in quanto la stessa p.a. procedente può e non deve richiedere all'ANAC pareri preventivi, finalizzati all'assunzione di proprie decisioni amministrative, pur non avendone l'obbligo, come nel caso del parere obbligatorio; non vincolante è stato detto, in quanto la p.a. procedente, una volta richiesto ed ottenuto il parere de quo,non deve obbligatoriamente uniformarsi ad esso, potendo assumere una decisione differente e motivata rispetto al parere acquisito, tenendo comunque ben presente che la giustificazione deve essere assai forte, potendo il mancato rispetto del parere emanato, a volte, ripercuotersi sulla legittimità del provvedimento assunto e determinare anche eventuali responsabilità del soggetto giuridico che ha assunto il provvedimento amministrativo finale. Del resto l'ANAC dispone di un potere d'ordine e se avesse voluto agire nel senso dell'obbligatorietà dei contenuti dell'orientamento lo avrebbe detto; potere d'ordine enucleato nella deliberazione ANAC n. 146 del 18 novembre 2014 nel caso si mancata adozione di atti o provvedimenti richiesti dal piano nazionale anticorruzione e dal piano triennale di prevenzione della corruzione nonché dalle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa o nel caso di comportamenti o atti contrastanti con i piani e le regole sulla trasparenza citati (articolo 1, comma 3, della legge 6 novembre 2012, n. 190, la quale, tra l'altro, prevede che: «[…] l'Autorità […] ordina l'adozione di atti o provvedimenti richiesti dal piano nazionale anticorruzione e dai piani di prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni e dalle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa previste dalla normativa vigente, ovvero la rimozione di comportamenti o atti contrastanti con i piani e le regole sulla trasparenza». 

Occorre, inoltre, precisare che l'ANAC nell'emanazione dei propri orientamenti è soggetta al rispetto del principio di legalità; principio centrale dello Stato di diritto, che obbliga la p.a. ad agire solo nel solco della legge e attraverso gli atti da essa previsti e che è considerato nei termini di non contraddittorietà dell'atto amministrativo rispetto alla legge (preferenza della legge) che permette alla p.a. di compiere un'attività che non sia vietata dalla legge (conformità formale) e di agire non soltanto entro i limiti di legge, ma anche in conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge stessa (conformità sostanziale).

L'orientamento n. 54/2014 e n. 22/2015

L'orientamento n. 54/2014 dell'ANAC sostiene che: «non rileva a i fini dell'inconferibilità di incarichi in caso di condanna, anche non definitiva, per i reati contro la pubblica amministrazione, ex art. 3 del d.lgs. n. 39/2013, la concessione della sospensione condizionale della pena (Corte Cost., 31 marzo 1994, n. 118; Corte Cost., 3 giugno 1999, n. 206).

L'orientamento n. 22 del 1 luglio 2015 sostiene che: «nel caso di conferimento di un incarico di responsabile di posizione organizzativa con funzioni dirigenziali, ad un soggetto condannato, in via definitiva, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di falsità ideologica commessa in atti pubblici ex art. 479 c.p., trova applicazione quanto stabilito dal d.lgs. n. 39, che ha disciplinato, in modo organico e ragionato, gli incarichi "dirigenziali" amministrativi. Pertanto, poiché il rato di falsità ideologica non rientrata tra i reati previsti dall'art. 3 del d.lgs. n. 39/2013, l'incarico può essere conferito».

L'orientamento n. 54 ribadisce che la condanna anche non definitiva subita per i reati contro la pubblica amministrazione, ex art. 3 del d.lgs. n. 39/2013, anche se unita alla concessione della sospensione condizionale della pena, è motivo d'inconferibilità di incarichi dirigenziali.

L'orientamento in questione appare distonico rispetto al principio di legalità che viene inteso come quel principio che obbliga la p.a. ad agire solo nel solco della legge e attraverso gli atti da essa previsti ed è un principio centrale dello Stato di diritto, all'interno del quale tutte le pp.aa. «[…] non sono legibus solutae: come qualsiasi altro soggetto giuridico, sono tenute al rispetto della legge.

Il principio di legalità è richiamato dalla legge n. 241/1990 Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, art. 1, comma 1, il quale dispone che: «L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princìpi dell'ordinamento comunitario».

La Costituzione del nostro Paese non contiene una formulazione espressa del principio di legalità anche se ad esso si fa riferimento indiretto in diversi articoli: in particolare nell'art. 23 Cost. il quale prevede che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge».

In ambito penale il principio di legalità si trova espresso nell'art. 25, comma 2 Cost., nell'art. 1 c.p. e nell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Nel diritto penale la materia delle fonti è dominata dal principio "nullum crimen, nulla poena sine lege"; principio che è denominato di stretta legalità, già sancito dallo Statuto albertino del 1848, all'art. 26, il quale disponeva che: «la libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch'essa prescrive»

Il codice penale, all'art. 166, recita che: «la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie. La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa».

«Tranne i casi specificamente previsti dalla legge»; ciò significa che per l'inconferibilità d'incarichi anche in caso di sospensione della pena, la legge (d.lgs. n. 39/2013) avrebbe dovuto disporla in modo esplicito.

Invece il decreto anticorruzione nulla dice in merito ai casi di condanna anche non definitiva con pena sospesa; di conseguenza l'orientamento n. 54 dispone, con una visione assai estensiva, l'inconferibilità al di là di ogni previsione normativa.

L'istituto della sospensione condizionale della pena è improntato ad una logica di favor libertatis e di attuazione del finalismo rieducativo della pena, così come previsto dall'art. 27 della Carta costituzionale.

Essa è disciplinata dall'art. 163, comma 1, del codice penale e prevede che: «nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all'arresto per un tempo non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore , nel complesso, a due anni, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni se la condanna è per delitto e di due anni se la condanna è per contravvenzione [….]».

L'art. 166, comma 1, del codice penale specifica che «la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie. La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificatamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative».

Al fine di specificare le pene accessorie, il codice penale all'art. 19, comma 1, prevede che: «Le pene accessorie per i delitti sono:

1. l'interdizione dai pubblici uffici;

2. l'interdizione da una professione o da un'arte;

3. l'interdizione legale;

4. l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;

5. l'incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione;

5.bis l'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro;

6. la decadenza o la sospensione dall'esercizio della responsabilità genitoriale».

Nessuno di tali provvedimenti accessori può essere applicato al soggetto destinatario, né costituire la condanna a pena sospesa motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificatamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative.

Una volta sospesa l'esecuzione della pena di contenuto più grave ed afflittivo, a fronte del giudizio prognostico favorevole di cui all'art. 164, c.p., non è possibile una

una esecuzione svincolata ed autonoma delle eventuali pene accessorie, spesso fortemente limitative della capacità personale del soggetto interessato, ad iniziare dalla capacità lavorativa.

Se intende derogare a tale impianto normativo, come chiarito dal comma 2 dell'art. 166, c.p., la deroga deve essere specificatamente prevista dalla legge.

La legge, del resto, ubivoluit dixit, ubinoluittacuit; e poiché il d.lgs n. 29/2013 nulla dice in merito, è del tutto evidente che, per una ben precisa volontà del legislatore, è possibile conferire incarichi di natura dirigenziale al soggetto condannato anche con pena non definitiva per una dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale.

In materia si è espresso anche il Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV 06/06/2008, n. 2678) a seguito di ricorso con il quale il il ricorrente lamentava che il giudice di primo grado non avesse minimamente tenuto conto che egli fosse stato condannato a) su concorde richiesta delle parti; b) alla pena di soli € 1549, 20; e che l'esecuzione della stessa è stata sospesa dal Giudice penale ai sensi dell'art. 166 c.p.p. a mente del quale «la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso di per sé sola motivo di impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici».

Secondo il Consiglio di Stato «Il motivo d'appello in esame è fondato. Come già evidenziato da questa Sezione nell'ordinanza n. 3630/2007, la citata disposizione «sembra privilegiare il diritto costituzionale al lavoro rispetto alla tutela degli interessi dell'amministrazione».«È dunque censurabile il provvedimento impugnato che attribuisce alla sentenza penale di condanna patteggiata [dal …] effetti automatici in ordine all'accesso a posti di lavoro pubblici, senza considerare in alcun modo gli effetti dell'applicata sospensione condizionata della pena» (Cfr. Cons. Stato Sez. VI n. 3084/01). 

Il giudizio prognostico dell'ANAC (orientamento n. 54/2013) si basa su due Sentenze della Corte Costituzionale; la prima (n. 118/1994) che riguarda la dichiarazione di decadenza dalla carica di consigliere comunale condannato con sentenza passata in giudicato per il reato previsto e punito dall'art. 318 del codice penale (Corruzione per un atto d'ufficio) e che non attiene affatto alla condanna penale con sospensione della pena; la seconda Sentenza della Suprema Corte (n. 206/1999) concerne il giudizio promosso per l'impugnazione di un decreto rettorale di sospensione cautelare dal servizio di un professore universitario, rinviato a giudizio per i reati di corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa, il quale, pur avendo attinenza con il rapporto di lavoro, non tocca la questione della condanna con la concessione della sospensione condizionale della pena.

Per quanto attiene all'orientamento n. 22/2015 l'ANAC, come già riportato supra, ritiene che nel caso di conferimento di un incarico di responsabile di posizione organizzativa con funzioni dirigenziali, ad un soggetto condannato, in via definitiva, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di falsità ideologica commessa in atti pubblici ex art. 479 c.p.,può essere conferito l'incarico dirigenziale «poiché il rato di falsità ideologica non rientra tra i reati previsti dall'art. 3 del d.lgs. n. 39/2013»; anche se l'ANAC precisa che «il dirigente condannato con sentenza definitiva per falso ideologico non può essere nominato responsabile per la prevenzione della corruzione» (vedi FAQ in materia di Anticorruzione. 1 Ambito di applicazione della normativa).

Da tutto ciò ne consegue che nel caso di condanna non definitiva (anche con pena sospesa) per abuso di ufficio ex art. 323 c.p. «il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni», non vi può essere conferibilità d'incarico dirigenziale; mentre nel caso di condanna in via definitiva, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di falsità ideologica commessa in atti pubblici ex art. 479 c.p., «il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476 [da uno a dieci anni di reclusione], vi può essere la conferibilità d'incarichi dirigenziali.

Valutazioni conclusive

Ci sarebbe da dire: quando la forma prevale sulla sostanza!

Nel caso concernente l'orientamento ANAC n. 54/2013 concernente l'inconferibilità di incarichi dirigenziali anche nel caso di condanna non definitiva con sospensione della pena (riferibile, ad esempio, al delitto di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p.), si versa in un'evidente azione che deborda dal principio di legalità, poiché l'orientamento e stato emanato in palese violazione dell'art. 166 c.p., il quale al comma 2 prevede, lo si ribadisce, che: «la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificatamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa».

Di converso, l'orientamento dell'ANAC, n, 22/2015 prevede che non sussiste l'inconferibilità di incarico dirigenziale per un soggetto condannato, in via definitiva, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di falsità ideologica commessa in atti pubblici ex art. 479 c.p.,«poiché il rato di falsità ideologica non rientra tra i reati previsti dall'art. 3 del d.lgs. n. 39/2013». E questo è palesemente vero, dal punto di vista giuridico, in quanto il legislatore ha così deciso.

Vi è dunque da ribadire: quando la forma prevale sulla sostanza!

Prof. Luigino Sergio

già Direttore Generale della Provincia di Lecce


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