Lo ha stabilito il tribunale di Taranto, nella recente sentenza n. 3146/2014, confermando la condanna al delitto di cui all'art. 393 c.p. inflitta ad una colf

di Marina Crisafi - Se la domestica sottopagata si fa giustizia da sé minacciando la madre della propria datrice di lavoro è integrato il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Lo ha stabilito il tribunale di Taranto, nella recente sentenza n. 3146/2014, confermando la condanna al delitto di cui all'art. 393 c.p. inflitta ad una colf che, ritenendo di essere sottopagata e trattata "come una schiava" dalla datrice di lavoro, minacciava la madre della stessa di ritorsioni, obbligandola con l'aiuto di un amico a farsi consegnare l'ulteriore retribuzione dovuta per il rapporto di lavoro instaurato con la figlia.

Ritenendo veritiera e coerente la ricostruzione dei fatti da parte dei testimoni e, al contrario, assertive le smentite degli imputati, il giudice pugliese non ha avuto dubbi nel ricondurre la vicenda nell'alveo dell'art. 393 c.p., disposizione che, com'è noto, sanziona chi, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza o minaccia alle persone.

Ai fini della sussistenza del reato, infatti, ha osservato il tribunale di Taranto, "non è necessario che la violenza o la minaccia sia usata direttamente verso chi è in conflitto d'interesse con l'agente".

Né, può valere ad escludere la punibilità per il reato commesso, la buona fede dell'agente circa la reale o putativa sussistenza del diritto preteso, la quale anzi "costituisce, al contrario, un presupposto necessario per la configurabilità del reato e vale a distinguere lo stesso da altre, più gravi, ipotesi criminose".

Quanto all'elemento soggettivo, ha concluso infine il tribunale, è sufficiente il dolo generico, integrato nel caso di specie, ossia la coscienza e volontà dell'atto di violenza e minaccia con la convinzione di esercitare un preteso diritto.

Ritenuti assorbiti nella fattispecie di cui all'art. 393 c.p., i reati di violenza privata

e minacce, ma non quello di ingiuria ex art. 594 c.p., il Tribunale ha quindi condannato la colf e il complice a 4 mesi di reclusione per ciascuno oltre al pagamento delle spese processuali, con il beneficio della sospensione della pena e della non menzione della condanna.

 


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