"La giusta causa di licenziamento quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (…) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama". L'accertamento dei presupposti che integrano il concetto giuridico appena menzionato attengono al c.d. giudizio di fatto, fase sicuramente riservata al giudice del merito e sindacabile in Cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione. La Corte d'appello ha correttamente accertato il fatto storico, qualificandolo tuttavia in maniera tale che non integrasse insubordinazione (il fatto era infatti isolato, non vi erano stati altri episodi simili) né, pur rilevando una condotta volgare, essendo idoneo a ledere l'immagine dell'azienda. Per tali motivi questo singolo comportamento non può essere ritenuto idoneo a recidere il rapporto fiduciario che deve pur sempre intercorrere tra dipendente e datore di lavoro. Il ricorso è rigettato.
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