Una sentenza che conferma quanto già chiarito in passato dalla Corte di Cassazione

Ribadendo quanto già affermato più volte dalla Corte di Cassazione il tribunale di Vasto, con sentenza del 20 febbraio 2015 ha dichiarato che il tempo per indossare e dismettere la tuta da lavoro deve essere retribuito.

 

Secondo quanto rende noto il rappresentante sindacale del Nursind (che ha proposto il ricorso), a seguito della sentenza la Asl dovrà ora corrispondere la retribuzione aggiuntiva a 32 infermieri che hanno aderito all'iniziativa giudiziaria.

 

Del resto che al lavoratore spetti una retribuzione aggiuntiva per il cosiddetto "tempo tuta" lo aveva chiarito una sentenza della Cassazione del 7 febbraio scorso (sentenza numero 2837/2014) spiegando che la regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 - secondo cui è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un'occupazione assidua e continuativa - "non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame); v. anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215". 


Nella stessa sentenza

((vedi:  Cassazione: al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva con allegato il testo integrale) la Corte, richiamando due precedenti pronunce (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492), precisa inoltre che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.L.G.S. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all'art. 1, comma 2, definisce "orario di lavoro" "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni".


Anche la giurisprudenza comunitaria (Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-l 51/02, parr. 58 ss.), ricordano gli ermellini, afferma che "per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera".

 

 

Un'altra sentenza della sezione lavoro della suprema corte (la n. 9215 del 7 giugno 2012) nel riconoscere il diritto del dipendente a essere retribuito per il "tempo tuta" ha anche chiarito che tale diritto spetta quando "luogo e tempo dell'operazione siano imposti dal datore di lavoro: le attività anteriori al raggiungimento del posto di lavoro si collocano al di fuori dell'orario di lavoro a meno che il datore non intervenga autoritativamente nel disciplinare le stesse ed il lavoratore si sottoponga al potere direttivo dell'imprenditore per cui inizia la prestazione e sia a disposizione dello stesso, assoggettato al potere direttivo e gerarchico del medesimo".  In quell'occasione ai lavoratori non era stato riconosciuto il diritto lo straordinario perché non c'era un dovere del lavoratore di anticipare l'ingresso per indossare la tuta.

 

Su questo argomento vedi anche: Il tempo tuta dell'infermiere diurnista - Dott. Carlo Pissaniello


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