La giurisprudenza civile della Suprema Corte di Cassazione si è sovente soffermata sul problema della lesione del diritto all'autodeterminazione e sul valore dello stesso ai fini della legittimazione
di Paolo M. Storani - La giurisprudenza civile della Suprema Corte di Cassazione si è sovente soffermata sul problema della lesione del diritto all'autodeterminazione e sul valore dello stesso ai fini della legittimazione dell'atto terapeutico.


Muovendo dal presupposto che ogni intervento chirurgico è, di per sé, un atto lesivo dell'integrità fisica, la Sez. III si è pronunciata più volte sulla portata che il consenso debba avere per poter essere qualificato tale, nonché sulla necessità che il consenso sia completo anche in merito ai rischi che si pongo in caso di una pluralità di possibili opzioni terapeutiche e chirurgiche.


Si esaminino, tra le altre, 30 luglio 2004, n. 14638, 14 marzo 2006, n. 5444, 9 febbraio 2010, n. 2847, 13 luglio 2010, n. 16394, 27 novembre 2012, n. 20984, 20 agosto 2013, n. 19220 e 11 dicembre 2013, n. 27751.
Per ravvisare la sussistenza di nesso di causalità fra lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente, realizzatosi attraverso l'omessa informazione da parte del medico, e lesione della salute per, pure incolpevoli, sequele negative dell'intervento (tuttavia non anomale in relazione allo sviluppo del processo causale: Cass., n. 14638/2004), deve potersi affermare che il malato avrebbe rifiutato l'intervento ove fosse stato compiutamente informato, poiché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell'acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l'evento (lesione della salute).


In senso conforme Cass. civ. 2847/2010 in punto di diritto all'autodeterminazione alla cura (o, volendo continuare ad adoperare la stantia formula, del c.d. "consenso informato"):


«la responsabilità professionale del medico - ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato - ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell'allegazione, da parte del paziente, dell'inadempimento dell'obbligo di informazione, è il medico gravato dell'onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione»

(Cass. civ., Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 2847, Pres. Morelli, Rel. Petti, Est. Amatucci, in RIML, 2010, 4-5, 774, con nota di Palmieri).
 
Emblematica la chiusa con cui si conclude il provvedimento del S.C. di rinvio per un rinnovato apprezzamento del fatto:


«in caso di conclusione sfavorevole alla paziente sulla risarcibilità del danno da pregiudizio temporaneo della salute, per difetto di nesso eziologico fra la condotta omissiva del medico e le complicanze conseguite all'intervento chirurgico - per l'apprezzamento ulteriore relativo alla eventuale sussistenza di uno spazio risarcitorio correlato alla sola lesione del diritto all'autodeterminazione, in relazione peraltro alle conseguenze che ne fossero in ipotesi derivate e non ravvisabile in ragione della lesione del diritto in sé stessa considerata (seondo i principi enunciati dalle più volte citate sentenze delle Sezioni unite, che hanno ribadito l'inconfigurabilità del cosiddetto "danno evento").
(Cass. civ., Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 2847, Pres. Morelli, Rel. Petti, Est. Amatucci, in RIML, 2010, 4-5, 774, con nota di Palmieri).
 
Non riveste rilievo ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato la circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno.
Sotto tale profilo, infatti, ciò che ha influenza è che il paziente, in ragione del deficit informativo non sia stato posto nella condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi riguardi, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, psico-fisica.


In proposito si veda la pronuncia del S.C. 19220/2013 in una fattispecie che riguardava, quale paziente, un avvocato (la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d'Appello di Roma, rinviando al medesimo Collegio capitolino, in diversa composizione, in relazione alla censura accolta):


«E' inammissibile una presunzione di consenso del paziente alla prestazione medica, sul presupposto che il consenso deve essere personale, specifico ed esplicito, nonché reale ed effettivo. Invero, il consenso deve essere pienamente consapevole, ossia deve essere "informato", dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico ed implicando, quindi, la piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative. In un tale contesto, è irrilevante la qualità del paziente alfine di stabilire se vi sia stato o meno consenso informato, potendo essa incidere soltanto sulle modalità di informazione, stante che quest'ultima deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate e adeguate al livello culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado di conoscenze specifiche di cui dispone»

(Cass. civ., Sez. III, 20 agosto 2013, n. 19220, Pres. Giovanni Battista Petti, Est. Antonietta Scrima, in RDFa, 2013, 4, 780).
 

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