La recente giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come il ricovero del degente nel nosocomio comporti necessariamente la stipula di un contratto tra l'ospedale ed il paziente

Avv. Eraldo Quici 

Dalla precedente disamina relativa alla responsabilità medica (vedi: La natura giuridica della responsabilità medica), possiamo ora operare degli approfondimenti che consentono ulteriormente di definire la stessa di natura contrattuale.  La recente giurisprudenza di legittimità ha difatti evidenziato come il ricovero del degente nel nosocomio comporti necessariamente la stipula di un contratto

tra l'ospedale ed il paziente; di conseguenza, in caso di danni, l'ente risponderà di responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 1228 c.c. Tale responsabilità, sempre nell'ipotesi di determinazione di danni a carico del paziente, si ravvisa anche nei confronti dei medici, dipendenti e non, che operano all'interno della struttura sanitaria. Mediante la cd. teoria del contatto sociale, il degente si affida al medico ed alla sua professionalità; di conseguenza, sul professionista sanitario incombono degli obblighi di cura derivanti dall'arte che egli esercita e professa. Si crea, pertanto, tra medico e paziente un vincolo, o vinculum iuris, la cui violazione da parte del primo genera una culpa in non faciendo: l'inadempienza così venuta ad esistenza rappresenta dunque una forma di responsabilità contrattuale (ex plurimis, Cass. Civ., SS. UU., sent. dell'11/01/2008, nr. 577).

La preminenza della responsabilità contrattuale su quella aquiliana in tema di imperizia del medico e di danni cagionati al paziente, è palese ed univoca, in quanto è diversa la stessa origine dei due tipi di responsabilità. L'illecito civile, difatti, viene in luce, qualora si ha la violazione di una situazione giuridica soggettiva altrui, mentre nel caso di inosservanza di obblighi, (quelli del medico nei confronti del paziente in sostanza), si genera una forma di responsabilità necessariamente contrattuale ai sensi dell'art. 1228 c.c. Altresì, a questa rilevante distinzione, possiamo anche aggiungere l'elemento individuato dai giudici di legittimità in relazione alla proposta di una pretesa risarcitoria per i danni subiti: se detta richiesta è avanzata per un' offesa ingiusta da parte di un attore che non è legato da alcun rapporto con il convenuto, si ha senza dubbio un caso di responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. Al contrario, se la pretesa si fonda sul mancato rispetto di un'obbligazione sottoscritta volontariamente, si determina allora la responsabilità contrattuale (Cass. Civ., 01/10/1994, nr. 7989). Questa seconda impostazione ricalca la posizione del medico che cagiona delle lesioni al proprio paziente.

Il medico è un professionista chiamato dall'ordinamento giuridico a realizzare un facere, che si traduce nella cura e nell'assistenza a favore del paziente; tale condotta deve essere sempre ed in ogni momento contraddistinta dalla perizia tipica della propria attività. Il comportamento del professionista sanitario è sempre dello stesso tipo, senza alcuna necessità di distinguere la presenza alla base di un contratto d'opera. La condotta del medico, così intesa, è dovuta dal fatto che esso esercita un servizio di pubblica necessità, per il quale è richiesta ex lege una specifica abilitazione statale. Il medico esercita pertanto una professione protetta, la quale deve essere in ogni caso  prestata con perizia, senza ravvisare l'esistenza o meno di un contratto tra l'operatore ed il paziente.

Attraverso l'orientamento giurisprudenziale sinora esposto, si registra la tendenza ad effettuare una reductio ad unitatem del regime di responsabilità del medico dipendente con quello del sanitario   professionista: entrambi i soggetti hanno il dovere giuridico di svolgere con perizia e prudenza la propria attività, incombendo su di loro lo spettro della responsabilità contrattuale, qualora vengano meno ad una simile condotta.

Orbene, delineato il rapporto che intercorre tra il medico ed il paziente, occorre ora descrivere quello che si genera tra il degente medesimo e l'ente ospedaliero. Secondo la giurisprudenza consolidata, anche in questa ipotesi si profila un rapporto di natura contrattuale: la semplice visita ambulatoriale o il ricovero nosocomiale comportano ad ogni modo la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il degente e l'ospedale. In forza di tale accordo, l'ospedale assume a proprio carico nei confronti del malato l'obbligazione di effettuare l'attività diagnostica, nonché quella terapeutica adatta al caso de quo. Pertanto, in caso di condotta negligente o imperita, che determina nel paziente dei danni, il nosocomio incorre in una situazione di responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. A tal fine, non rileva l'eventuale distinzione tra ente ospedaliero pubblico o privato: difatti, la Suprema Corte di Cassazione statuisce che "…in relazione alla responsabilità della struttura sanitaria, è irrilevante che si tratti di un ospedale pubblico, oppure di una clinica privata, in quanto gli stessi istituti risultano essere equivalenti a livello normativo, così come parimenti gli obblighi che entrambi si assumono riguardo ai pazienti" (Cass. Civ., SS. UU., sent. nr. 577 dell'11/01/2008).

Paradigmatico è senza dubbio l'esempio della gestante ricoverata in un ospedale. L'istituto di ricovero, accettando la partoriente, si obbliga nei confronti di questa non solo ad espletare tutte quelle attività utili e necessarie al fine di permetterle di partorire, ma altresì a realizzare e a prestare le opere volte a garantire che la nascita avvenga senza alcun danno. Si configura, dunque, tra la degente e l'ospedale un contratto con effetti protettivi a favore di terzi nei confronti del nascituro. Il terzo, tuttavia, non coincide con il nato; il contratto in questione impone l'obbligo di non arrecare alcun danno a terzi che risultino essere estranei all'accordo. Da ciò infine consegue che in caso di condotta negligente, l'azione di ristoro dei danni può essere legittimamente esercitata sia dalla partoriente, sia dal soggetto a tutela del quale è posto l'obbligo (Cass. Civ., 22/11/1993, nr. 11503).

Avv. Eraldo Quici

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