La Corte afferma un principio che, se confermato dalla successiva produzione giurisprudenziale, inciderà profondamente in materia di assenteismo dei dipendenti

Avv. Prof. Stefano Lenghi 

(Nota alla sent. Cass., Sez. Civ. Lav., 04 settembre 2014, n.18678). 

1) Il principio stabilito dalla Suprema Corte ed il superamento della costante giurisprudenza di legittimità nella fattispecie esaminata dalla richiamata sentenza.

Con la sentenza richiamata in oggetto, cui la stessa stampa quotidiana ha dato ampio risalto, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito un autorevole principio che, se confermato dalla successiva produzione giurisprudenziale, inciderà profondamente, in materia di assenteismo dei dipendenti, sulle decisioni datoriali in materia di risoluzione dei rapporti di lavoro.

In sintesi, è stato affermato che assenze per malattia di breve durata (un giorno o due), effettuate sistematicamente "a macchia di leopardo" (così come le ha definite la Corte di legittimità), comunicate all'ultimo momento, costantemente agganciate ai giorni di riposo del lavoratore e spesso avvenute nei turni di fine settimana oppure notturni, anche se non abbiano superato il periodo di comporto stabilito dalla contrattazione collettiva, rendendo del tutto inutile per il datore la prestazione lavorativa, costituiscono giustificato motivo obiettivo di licenziamento

, ai sensi di quanto previsto dagli artt.1 e 3 della legge 15 luglio 1966 n.604 e successive integrazioni e modificazioni. Trattasi di una decisione di rilevante portata nella storia dell'elaborazione giurisprudenziale in materia di rapporti tra malattia e licenziamento, destinata indubbiamente a riflettersi sui modelli di comportamento datoriali nei confronti di lavoratori che pongano in essere un assenteismo, che, pur se non eccedente il periodo di comporto, in relazione alle modalità del suo manifestarsi, si riveli del tutto incompatibile con le esigenze produttive ed organizzative dell'azienda (insomma, per dirla non da giuristi, nei confronti di lavoratori troppo avvezzi ad un assenteismo, che, in taluni casi, appare proprio "mirato" o, addirittura, come è stato da taluno denominato, "strategico"….

2) Fatti e vicende processuali che hanno condotto all'intervento giurisprudenziale.

Ma partiamo dai fatti, che hanno generato le vicende processuali, e dalle stesse.

L'azienda P.I. spa, di fronte ad un comportamento assenteistico del tipo di quello or ora descritto, aveva intimato il licenziamento del lavoratore autore del comportamento stesso.

Il lavoratore F.G., sul preteso presupposto della illegittimità del licenziamento (in quanto, non avendo il sistema di assenze per malattia superato il periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva, egli avrebbe avuto diritto alla conservazione del posto di lavoro), impugnava il provvedimento con ricorso al Tribunale di Vasto, il quale respingeva, però, le doglianze attoree.

Contro la sentenza di primo grado interponeva appello il lavoratore alla Corte d'Appello dell'Aquila, la quale confermava la decisione di primo grado, pronunziandosi anch'essa per la legittimità del licenziamento.

Avverso la sentenza d'appello il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, prospettando tre motivi di doglianza (mentre la società P.I. resisteva con controricorso e ricorso incidentale condizionato relativo all'inamissibilità dell'appello e, quindi, del ricorso per cassazione), ma anche il Supremo Consesso, respingendo l'impugnativa, confermava ulteriormente la sentenza della Corte di merito di secondo grado e, conseguentemente, la legittimità, nella fattispecie de qua, del licenziamento del sig. F.G. intimato dalla società P.I. spa per giustificato motivo obiettivo.

3) Il concetto di "giustificato motivo obiettivo": succinta ricostruzione dei suoi aspetti definitori. Motivazione della sentenza e giustificato motivo obiettivo nel suo connotato "ontologico".

Diciamo subito che la sentenza, di cui alla massima in oggetto, ha il grande merito di aver implicitamente condotto una riesplorazione del concetto di "giustificato motivo obiettivo", troppo spesso, forse volutamente, inteso dalla stessa magistratura trascurando i connotati che veramente lo identificano e caratterizzano, per fare spazio a tutele del posto di lavoro in molti casi (come in quello di specie) sconsiderate attraverso una applicazione indiscriminata delle norme sul c.d. "comporto per malattia", che hanno finito per snaturare la portata del concetto stesso.

Ai fini della più corretta valutazione in punto di diritto della fattispecie considerata dalla sentenza, sostiamo per un attimo su tale concetto per identificare, anche se in modo assai succinto, gli elementi che, ontologicamente e teleologicamente, lo caratterizzano, iniziando dal connotato "ontologico".

Ai sensi di quanto disposto dall'art.3 della legge 15 luglio 1966 n.604, il licenziamento per giustificato motivo obiettivo è, com'è noto, quello determinato da "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa".

Desideriamo porre in risalto che trattasi di un'ipotesi di licenziamento, che è stato denominato "obiettivo" proprio perché esso prescinde da un comportamento colpevole del lavoratore. Il lavoratore non ha tenuto alcun comportamento a sua colpa imputabile (nella specie, la malattia è stata regolarmente certificata dal medico e lo stesso periodo di comporto non è ancora stato superato), ma, all'interno dell'azienda, si è manifestata una situazione di oggettivo contrasto tra posizione datoriale e posizione del lavoratore, in forza della quale, per ragioni connesse con l'attività produttiva o con l'organizzazione del lavoro ed il suo regolare funzionamento, l'azienda si trova nell'impossibilità di proseguire la collaborazione con il lavoratore, perché la prosecuzione di tale collaborazione, ove anche materialmente possibile, si rivelerebbe, comunque, del tutto antieconomica per l'azienda. Ciò in quanto, per effetto della richiamata situazione, la prestazione: a) o non potrebbe essere più materialmente resa dal dipendente come espressione della sua posizione contrattuale (come nei casi di totale sospensione dell'attività produttiva per grave crisi o ristrutturazione aziendale o di soppressione del reparto in cui opera il lavoratore o di soppressione delle mansioni o del posto di lavoro o di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni contrattualmente assegnategli, fatto salvo, beninteso, l'onere del repêchage a carico datoriale); b) o, se possibile, per la presenza di elementi che intrinsecamente diminuiscono il rendimento della prestazione svolta o per le sue particolari modalità di svolgimento, la prestazione stessa si rivelerebbe, comunque, del tutto inutile ed improficua per l'azienda. E questo è certamente il criterio che consente di identificare, sul piano ontologico, il giustificato motivo obiettivo (elemento ontologico).

Orbene, ciò posto in ordine a tale schematica ricostruzione del concetto di "giustificato motivo obiettivo", può ben comprendersi quale sia lo spessore giuridico e, conseguentemente, la portata del pensiero espresso dal Supremo Collegio, che, finalmente, nega diritto di cittadinanza a comportamenti dei lavoratori che, sfruttando abilmente giuste tutele apprestate dalla contrattazione collettiva anche nel caso di frequente reiterazione di brevi eventi morbosi e con l'aiuto di sanitari compiacenti, riescono a "ritagliarsi" giorni di assenza dal lavoro, con notevole ingiusto nocumento non solo a carico dell'organizzazione aziendale, ma, spesso, degli stessi colleghi di lavoro.

Calandoci ora nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, ci imbattiamo in un lavoratore che ha messo in atto una serie di sistematiche assenze (definite dagli stessi giudici "a macchia di leopardo"), per un numero esiguo di giorni (due o tre), reiterate anche all'interno dello stesso mese e costantemente agganciate ai suoi giorni di riposo (n.520 ore nel 1999, n.232 nel 2000, n.168 nel 2001, n.368 nel 2002, n.248 nel 2003), per di più comunicate al datore all'ultimo momento e spesso effettuate nei turni di fine settimana oppure notturni, senza, peraltro, formalmente superare il periodo di diritto alla conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto per malattia) previsto dalla contrattazione collettiva.

Non possiamo che elevare il nostro plauso al magistrale insegnamento espresso dalla Suprema Corte (da tempo tanto auspicato dalle "forze" sane del diritto e dell'economia), la quale, condividendo gli assunti cui sono pervenute ambedue le magistrature di merito, ha inteso ricondurre nel giusto alveo del giustificato motivo obiettivo tutte le forme anomale di assenteismo mirato ed alquanto esasperato, del tipo di quello oggetto di disamina.

Opina, innanzitutto, la Corte di legittimità che un sistema di assenze come quello posto in essere dal sig. F.G. dà luogo ad una prestazione lavorativa, che è da considerarsi non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per l'azienda, rivelandosi inadeguata sotto il profilo produttivo, nonché, anche e soprattutto per le modalità con cui è stata resa, addirittura pregiudizievole per l'organizzazione aziendale, per cui siamo in presenza di uno scarso rendimento del lavoratore che, a prescindere dalla colpevolezza o meno del medesimo, è assolutamente incompatibile con le obiettive esigenze dell'organizzazione aziendale.

Le sistematiche assenze del sig. F.G., prosegue poi la Corte, incidevano sulle esigenze di organizzazione ed efficiente funzionamento dell'azienda, dando anche luogo a "scompensi organizzativi", in quanto, "comunicate all'ultimo momento determinavano la difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto", anche in considerazione del fatto che il dipendente "risultava assente proprio allorchè doveva effettuare il turno di fine settimana o il turno notturno, il che causava ulteriori difficoltà nella "sostituzione, (oltreché malumori nei colleghi che dovevano provvedere alla sostituzione), ciò anche in ragione del verificarsi delle assenze "a macchia di leopardo" ".

Ma l'argomentazione del Supremo Collegio, che maggiormente inchioda, per cosi dire, il nucleo ideologico della questione del rapporto tra malattia e giustificato motivo obiettivo, è quella secondo cui, nella fattispecie de qua, l'evento "malattia" non viene e non deve venire in rilievo come evento in sé e per sé considerato (e come evento in sé e per sé considerato, nel caso di specie, è formalmente legittimo, in quanto la morbilità risulta regolarmente certificata e la sua durata non ha superato il periodo di comporto), ma come evento che, per le caratteristiche e modalità del suo estrinsecarsi, del suo concreto manifestarsi all'interno dell'organizzazione, produce quella obiettiva situazione di contrasto tra posizione dell'azienda e posizione del lavoratore (cui abbiamo più sopra accennato nel connotare il concetto di giustificato motivo obiettivo), in forza della quale il datore non può continuare ad utilizzare la collaborazione del lavoratore, perché questa diverrebbe del tutto antieconomica, essendosi la prestazione del lavoratore rivelata inutile ed improficua.

Il problema, quindi, a nostro parere, nei casi del tipo di quello di specie, non è e non può più essere, ai fini della legittimità del licenziamento, quello del superamento o meno del periodo di comporto, ma è unicamente quello della compatibilità e coerenza della prestazione, per le modalità con cui è effettivamente resa (in termini di utilità e proficuità della stessa), con le obiettive esigenze dell'organizzazione produttiva e del lavoro, compatibilità e coerenza che trascendono ogni discorso di superamento o meno, da parte degli episodi morbosi, del periodo di comporto, poiché il concetto di giustificato motivo obiettivo di licenziamento -desideriamo ribadire a chiare note l'assunto in questione senza tema di appesantire la trattazione!- 1) inerisce unicamente alla situazione di contrasto tra posizione del lavoratore e posizione dell'azienda, in forza della quale l'azienda si trova a non poter più proseguire la collaborazione con il lavoratore, in quanto la prosecuzione della collaborazione, per obiettive ragioni di ordine produttivo o di regolare funzionamento organizzativo, si rivelerebbe del tutto antieconomica a fronte della inutilità ed improficuità di una prestazione resa nel modo descritto, e 2) prescinde del tutto dal fatto che i brevi e reiterati episodi morbosi siano regolarmente certificati o meno o che il periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva sia stato o meno superato, così come prescinde totalmente, se vogliamo, dal fatto che i comportamenti del lavoratore siano o meno imputabili a colpa del medesimo.

Giustamente, pertanto, assume la Suprema Corte che priva di fondamento è la censura di parte attrice della non irrogabilità del licenziamento in presenza di assenze per malattia che non superino il periodo di comporto, così come non fondata è la censura che contesta la congruità del controllo effettuato dal giudice di merito sulle ragioni del licenziamento, in ragione della motivazione sopra richiamata della decisione impugnata.

E altrettanto correttamente, quindi, nella decisione in commento si afferma che non può trovare applicazione, nei casi di specie, quella costante giurisprudenza del Supremo Consesso (che la sentenza stessa conferma, comunque, di ritenere pienamente legittima, se applicabile a tutte quelle ipotesi di eccessiva morbilità non riconducibili nell'ambito del giustificato motivo obiettivo), secondo cui "la fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 cc, che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali" (alla luce di tale costante giurisprudenza, com'è noto, da un lato, *) il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza fissato dalle disposizioni sul periodo di comporto per malattia previste dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, **) il superamento di quel limite è, per l'orientamento giurisprudenziale prevalente, condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (ex multis, Cass., n. 1861 del 2010), assunto, quest'ultimo di cui al punto **), che, peraltro, come avremo in seguito occasione di precisare, non ci sentiamo, in linea di stretto diritto, di condividere, sembrandoci non fondarsi su validi criteri interpretativi.

Fondatamente, infine, assume il Supremo Collegio, che, nella specie, non si pone, in capo al datore di lavoro, alcun problema di onere di repêchage (con cui, rammenta la sentenza, "si esprime l'obbligazione posta a carico di quest'ultimo di adibire il lavoratore licenziato in altre mansioni reperibili in azienda di analogo livello professionale"), in quanto è sin troppo chiaro che la fenomenologia assenteista del lavoratore trova la sua causa esclusivamente nella caratteriologia personale del medesimo, per cui è da ritenere che il fenomeno assenteistico posto in essere dal nostro lavoratore si sarebbe verificato e si verificherebbe con identiche modalità anche nell'ambito dello svolgimento di mansioni diverse.

Tutto quanto sopra predicato inerisce, come si è osservato, a quello che definiremmo il connotato ontologico caratterizzante il concetto di "giustificato motivo obiettivo".

4) Motivazione della sentenza e giustificato motivo obiettivo nel suo connotato "teleologico".

Diamo, ora, uno sguardo a quello che potremmo qualificare come l'elemento teleologico del concetto stesso. In proposito, non possiamo che rivolgere la nostra attenzione al riferimento, nella motivazione della sentenza in commento, al precedente giurisprudenziale di Cass. Civ. Lav., n.3876 del 2006 (il cui orientamento la nostra sentenza mostra di voler appieno recepire), secondo cui il giustificato motivo di licenziamento (la sentenza, per la verità, si riferisce al giustificato motivo soggettivo, ma il discorso spiega qui perfettamente la sua valenza anche in termini di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, trattandosi di confronto tra situazioni che possono anche prescindere da colpa del lavoratore!) viene in considerazione anche quando si manifesta una "enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente dallo stesso realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto con i risultanti dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione". In buona sostanza, però, -ci chiediamo- l'enorme sproporzione tra obiettivi conseguiti dalla prestazione del lavoratore e gli obiettivi fissati dai programmi di produzione al medesimo assegnati, messi a punto, questi ultimi, con riferimento agli obiettivi di media attività di produzione conseguibili e normalmente conseguiti dalle prestazioni degli altri dipendenti, non è forse anch'essa segno manifesto della presenza di quella situazione di contrasto tra utilità e proficuità della prestazione lavorativa, da un lato, ed esigenze dell'attività produttiva e dell'efficiente funzionamento dell'organizzazione, dall'altro, in cui si sostanzia il giustificato motivo obiettivo? Viene spontaneo, pertanto, concludere che elemento ontologico ed elemento teleologico sono, in sostanza, due facce della stessa medaglia. Veramente pregevole, comunque, ci sembra il richiamo, da parte della sentenza in questione, a questo criterio dell'enorme sproporzione tra obiettivi assegnati alla prestazione del lavoratore ed obiettivi in concreto dalla stessa effettivamente realizzati, che potremmo definire, in un certo senso, come l'elemento teleologico, finalistico, del giustificato motivo obiettivo, entrato, attraverso la sentenza in disamina, nella struttura di detta causale di risoluzione del rapporto di lavoro, accanto all'elemento ontologico, su cui ci siamo più sopra diffusamente intrattenuti.

Ci sia solo consentito, in proposito, rilevare come il suesposto criterio inerisca alla sproporzione tra obiettivi assegnati ed obiettivi raggiunti dalla prestazione, e non alla sproporzione tra obiettivi assegnati ed obiettivi conseguiti dalla persona del lavoratore, ciò che vale a depsicologizzare, a depurare il concetto di "giustificato motivo obiettivo" da ogni possibile riferimento ad elementi connessi con un comportamento ascrivibile a colpa del lavoratore, perché, appunto, nel concetto di giustificato motivo obiettivo in sé e per sé considerato, si prescinde da ogni responsabilità soggettiva del lavoratore, che, ove ne fosse provata la sussistenza, ricondurrebbe inevitabilmente il comportamento del lavoratore nell'ambito (o anche nell'ambito) dei concetti di giusta causa o di giustificato motivo di carattere soggettivo, rendendo il comportamento stesso suscettibile di un provvedimento di licenziamento disciplinare.

 

5) In conclusione:

 

Tirando ora le fila del nostro discorso, e volendo schematizzare, alla luce del magistero espresso dalla Suprema Corte, le nuove direttrici di marcia in materia di rapporti tra eccessiva morbilità e licenziamento, possiamo senz'altro affermare che:

a) nell'ipotesi di eccessiva morbilità del dipendente costituita da una serie di brevi assenze per malattia reiterate e sistematiche, nonchè regolarmente certificate dal punto di vista medico e non eccedenti il limite di tolleranza previsto dalle norme sul comporto di malattia, si potrà procedere al licenziamento nel solo caso in cui tale fenomenologia, per le modalità con cui si manifesta, sia in contrasto con le esigenze dell'attività produttiva e del regolare funzionamento dell'organizzazione aziendale (elemento ontologico) ed evidenzi un enorme contrasto tra obiettivi assegnati alla prestazione ed obiettivi effettivamente dalla stessa conseguiti (elemento teleologico), di talchè, rendendo inutile ed improficua la prestazione e, conseguentemente, del tutto antieconomica la prosecuzione della collaborazione con il lavoratore, integri giustificato motivo obiettivo di risoluzione del rapporto di lavoro. In altri termini e più semplicemente e succintamente, l'eccessiva morbilità, pur se regolarmente certificata sul piano medico e non eccedente il periodo di comporto per malattia, ove manifestatasi con modalità tali da rendere inutile ed improficua la prestazione, produce quello scarsissimo o scarso rendimento costituente giustificato motivo obiettivo di risoluzione del rapporto di lavoro;

 

b) nel caso, invece, in cui la morbilità del lavoratore non si manifesti con le surrichiamate caratteristiche, ove regolarmente certificata sul piano medico e non eccedente i limiti di tolleranza previsti dalle norme sul comporto per malattia, il lavoratore, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2110 del codice civile, avrà diritto alla conservazione del posto di lavoro, ciò che renderebbe, ovviamente, illegittimo ogni provvedimento datoriale risolutorio del rapporto di lavoro;

 

c) in tutti i casi, comunque, in cui la fenomenologia assenteistica dovesse superare la durata massima del periodo di comporto, non concordiamo con l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, secondo cui il superamento del periodo di comporto concreterebbe, di per sé, la sussistenza del giustificato motivo obiettivo. A nostro modesto avviso, infatti, l'avvenuto superamento del periodo di comporto ci dice semplicemente che il lavoratore non ha più diritto alla conservazione del posto, per cui va a collocarsi in una situazione di licenziabilità, licenziabilità che, però, per espressa disposizione degli artt. 1 e 3 della legge n.604/1966, è possibile soltanto ove parte datoriale provi la sussistenza, in concreto, di una delle specifiche causali che costituiscono il presupposto di legittimità del licenziamento e, nella specie, il giustificato motivo obiettivo. E, come pur è stato sostenuto da autorevole giurisprudenza, non è detto che l'avvenuto superamento del periodo di comporto concreti, di per sé, quella situazione in cui si sostanzia il giustificato motivo obiettivo. Opinare in senso contrario, a nostro parere, significherebbe istituire la possibilità di una sorta di giustificato motivo "presunto", ciò che non sarebbe compatibile con i principi del nostro ordinamento giuslavoristico, ove, in virtù del principio della rilevanza giuridica del fatto, non esiste nulla di presunto, quando una qualificazione giuridica comporta una valutazione di comportamenti e situazioni fattuali. La sussistenza del giustificato motivo obiettivo (identico discorso, d'altra parte, è predicabile per la giusta causa e per il giustificato motivo soggettivo) dev'essere, infatti, dimostrata alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, affinchè si possa verificare se la prestazione lavorativa, per le modalità del suo manifestarsi appunto "in concreto", realizzi il modello paradigmatico del giustificato motivo obiettivo.

A chiusura di questo nostro percorso elaborativo non possiamo che esprimere il nostro vivo apprezzamento per la linea di pensiero espressa dalla Magistratura, che, anche su un problema spesso così spinoso (e sempre di rilevante attualità) come quello dell'assenteismo posto in essere in forme tali da rivelarsi dannoso sia per il regolare funzionamento dell'azienda che per gli stessi colleghi di lavoro (che devono organizzare ed effettuare le sostituzioni), ha confermato il suo ruolo di supplenza alla lentezza e genericità degli interventi legislativi, nonché il suo ruolo di soggetto attivo e di protagonista silenzioso del sistema di relazioni industriali (unitamente alle imprese, al sindacato e al governo), capace di apportare, attraverso la sua attività interpretativo-decisoria, laddove possibile, un significativo ed incisivo contributo all'eliminazione di quei vincoli giuridici alla produttività, che impediscono o rendono più difficoltosa una gestione dell'impresa e, in particolare, dei rapporti di lavoro, secondo criteri di economicità ed efficienza. E ciò massimamente in questo periodo in cui un sistema di pesi del tutto insopportabile (pressione fiscale; costi del lavoro, energetici e dei trasporti; una spesa pubblica elefantiaca, improduttiva ed in gran parte inutile; burocratismi a non finire e, non da ultimi, i dianzi richiamati vincoli giuridici alla produttività presenti nell'intero nostro ordinamento normativo e, in particolare, nel plesso giuslavoristico) esercita un effetto totalmente dissuasivo dall'effettuare investimenti produttivi in Italia, soffocando, così, le possibilità di crescita soprattutto dell'impresa, cellula vitale del sistema-Paese. Un contributo, insomma, in un certo senso anch'esso reso in nome della tanto conclamata flexicurity, ovverosia ad una gestione assai più flessibile dei rapporti di lavoro, attenta, però, a non compromettere quel sistema di tutele (quanto meno di quelle tutele di fondo), che il complesso normativo appresta (ed è giusto che continui ad apprestare) alla parte-lavoratori.

Milano, 06 ottobre 2014

Avv. Prof. Stefano Lenghi

E-mail: s.lenghi@alice.it; 

Tel.: 0322-58709; Cell.: 3494677332; sito internet: www.lenghilegalconsulting.com


TESTO DELLA SENTENZA ANNOTATA

  

Sentenza Corte di Cassazione - Sezione Lavoro 04.09.2014, n. 18678

 

Repubblica Italiana

In nome del popolo italiano

La Corte Suprema di Cassazione - Sezione Lavoro

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Federico Roselli - Presidente

Dott. Giuseppe Napoletano - Consigliere

Dott. Umberto Berrino - Consigliere

Dott. Rosa Arienzo - Consigliere

Dott. Irene Tricomi - Rel. Consigliere

Ha pronunciato la seguente

Sentenza

Sul ricorso 30765-2011 proposto da:

F.G., già elettivamente domiciliato in Roma, via ..., presso lo studio dell'avvocato ... giusta delega in atti e da ultimo domiciliato presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione;

- Ricorrente -

Contro

S.P.A. P.I. ...

- intimata -

Nonché da:

S.P.A. P.I. ... in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via ... presso lo studio dell'avvocato ..., rappresentata e difesa dall' avvocate ... giusta delega in atti;

- controricorrente e ricorrente incidentale -

contro

...;

- intimato -

avverso la sentenza n. 801/2011 della Corte d'Appello di L'Aquila, depositata il 07/09/2011 R.G.N. 1594/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/06/2014 dal consigliere Dott. Irene Tricomi;

udito l'Avvocato ... ;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Carestia Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbimento ricorso incidentale.

Svolgimento del fatto

1. La Corte d'Appello de L'Aquila, con la sentenza n. 801/11, pronunciando sull'impugnazione proposta da ... nei confronti della società ... spa, avente ad oggetto la sentenza del Tribunale di Vasto n. 335 dell' 11 gennaio 2011, la rigettava.

2. ... aveva adito il Tribunale per sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento irrogatogli per giustificato motivo oggettivo dalla suddetta società in data 10 novembre 2003, con tutte le conseguenti statuizioni ripristinatorie e risarcitorie.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il ... prospettando tre motivi di ricorso.

4. La società ... spa resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato relativo all'inammissibilità dell'appello e quindi del ricorso per cassazione.

Motivi della decisione

Preliminarmente, va disposta la riunione dei ricorsi in quanto proposti avverso la medesima sentenza di appello.

1. Con il primo motivo di ricorso è prospettato il vizio di difetto di motivazione della sentenza, per insufficienza e contraddittorietà della stessa su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, n. 5.

Il ... censura la statuizione della Corte d'Appello che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo irrogato in ragione delle sistematiche assenze del medesimo, "a macchia di leopardo", comunicate in limine, con conseguente mancanza di continuità e proficuità, anche se non superiori al periodo di comporto, da cui derivava una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile da parte della società, risultando la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo, e pregiudizievole per l'organizzazione aziendale.

Ad avviso del ricorrente, il licenziamento può intervenire solo se viene superato il periodo di comporto, circostanza non verificatasi nel caso di specie.

Peraltro, dalla complessiva lettura degli atti processuali e della sentenza non sarebbe chiara la ragione del licenziamento: giusta causa, o giustificato motivo oggettivo, atteso il riferimento anche allo scarso rendimento.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettato il vizio di difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, costituito dalla mera adesione alle conclusioni dell'appellato senza tener conto delle contestazioni dell'appellante; violazione di legge e dei principi dell'onere della prova ex art. 2697 cc, in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c..

La società resistente non avrebbe offerto prova in ordine alla circostanza che le assenze avessero causato problemi all'organizzazione produttiva, pur gravando sulla stessa il relativo onere, tenuto conto, altresì, che la medesima società era organizzata in modo da poter sostituire senza difficoltà un lavoratore per improvvisa malattia, tanto che le assenze di esso ricorrente, come risultava dalla prova per testi non avevano bloccato la produzione. Né era stato provato lo scarso rendimento.

La sentenza della Corte d'Appello sarebbe, altresì, affetta da vizio di motivazione rispetto all'esistenza di inequivoci comportamenti discriminatori posti alla attenzione della medesima (quali l'invio di lettera a chiarimento sulle assenze), e sui quali non si era pronunciata affermando che esulassero dal giudizio, benché esso ricorrente avesse posto in luce una successione di eventi che evidenziavano la premeditazione del licenziamento.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 cc, nonché dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, anche in relazione all'art. 32 Cost., con conseguente difetto di motivazione, in relazione all'art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.

Il lavoratore censura la statuizione con la quale la Corte d'Appello ha affermato che l'eccessiva morbilità, dovuta a reiterate assenze, anche se indipendente da colpevolezza dello stesso, e nei limiti del periodo di tolleranza contemplato dalla contrattazione collettiva, aveva integrato gli estremi dello scarso rendimento, sicché la propria prestazione non si rilevava più utile per il datore di lavoro.

Espone il ricorrente che il licenziamento può intervenire solo nel caso di superamento del periodo di comporto, anche quando la malattia non ha carattere unitario o continuativo.

Non poteva, quindi, ritenersi il giustificato motivo oggettivo del licenziamento, non essendo, inoltre, state provate le esigenze produttive e organizzative poste alla base del recesso datoriale, che peraltro avrebbe richiesto, il cd. repechage.

Ai fini di una corretta lettura delle vicende di causa il ... infine richiama la motivazione dell'ordinanza del Tribunale di Vasto che aveva accolto il reclamo avverso il rigetto del ricorso ex art. 700 c.p.c. avente ad oggetto la reintegra nel posto di lavoro.

4. I tre motivi del ricorso principale devono essere trattati congiuntamente. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.

4.1. Le censure toccano, sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge, i seguenti punti della statuizione della Corte d'Appello.

Mancata chiarezza nella sentenza circa la causale del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.

Illegittimità del licenziamento per eccessiva morbilità.

Mancanza di prova delle esigenze organizzative e produttive e dello scarso rendimento del lavoratore.

4.2. Va premesso che, anche in sede di impugnazione, sarebbe ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto le dette causali del recesso datoriale costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, fermo restando l'immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto (si cfr., Cass., n. 12884 del 2014). Tuttavia, nella specie, la sentenza, in modo chiaro, e in più punti, afferma la legittimità del licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo, così qualificando l'atto di recesso.

In particolare, sia nel richiamare la prospettazione del ricorrente in appello: "l'appellante censura l'impugnata sentenza addebitandole di aver erroneamente ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatogli", sia nell'esporre le argomentazioni che fanno "giustificare il provvedimento risolutorio per giustificato motivo oggettivo, anche sotto il profilo della proporzionalità della sanzione irrogata", il giudice di secondo grado qualifica come licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'atto di recesso.

Quindi, ritiene il Collegio che la censura nella sostanza investa, in uno con le altre doglianze, la mancanza delle condizioni per ritenere legittimo il recesso, così qualificato, in ragione delle doglianze sopra esposte in sintesi.

4.3. Costituisce giurisprudenza costante di questa Corte che la fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 cc, che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.

Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (ex multis, Cass., n. 1861 del 2010).

4.4. Nella specie, tuttavia, le assenze del lavoratore, dovute a malattia, vengono in rilievo sotto un diverso profilo, per cui non può trovare applicazione la giurisprudenza da ultimo richiamata, come, invece, dedotto dal ricorrente.

4.5. Per le modalità con cui le assenze si verificavano, che, riportate in sentenza (per un numero esiguo di giorni, due o tre, reiterate anche all'interno dello stesso mese, e costantemente "agganciate" ai giorni di riposo del lavoratore - n. 520 ore nel 1999, n. 232 nel 2000, n. 168 nel 2001, n. 368 nel 2002, n. 248 nel 2003), non sono contestate dal lavoratore con l'odierno ricorso, le stesse, infatti, davano luogo ad una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l'organizzazione aziendale così da giustificare il provvedimento risolutorio (senza peraltro, come dedotto dal lavoratore che la Corte d'appello facesse riferimento a motivi oggettivi).

4.6. Occorre ricordare che, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 "il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".

4.7. La giurisprudenza di questa Corte ha, poi, precisato che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'effettività delle ragioni che giustificano l'operazione di riassetto (ex multis, Cass., n, 7474 del 2012).

Ancora, si è affermato che è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass., n. 3876 del 2006).

4.8. La statuizione della Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione, con congrua motivazione, dei principi sopra enunciati.

È bene chiarire che per la Corte d'Appello, la malattia non viene in rilievo di per sé, come si è già detto, ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale.

Le stesse, infatti, incidevano sulle esigenze di organizzazione e funzionamento dell'azienda, dando luogo a scompensi organizzativi. Come risultava dalla istruttoria (testi escussi colleghi de ...) le assenze comunicate all'ultimo momento determinavano la difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto, considerato, fra l'altro che il ... risultava assente proprio allorché doveva effettuare il turno di fine settimana o il turno notturno, il che causava ulteriore difficoltà nella sostituzione (oltre che malumori nei colleghi che dovevano provvedere alla sostituzione), ciò anche in ragione del verificarsi delle assenze "a macchia di leopardo".

Peraltro, questa è la ratio decidendi della sentenza, mentre il richiamo alla mancata risposta alla lettera con la quale si invitavano i dipendenti tra cui ... a dedurre in ordine alle numerose assenze, non è posto dalla Corte d'Appello in relazione con il licenziamento.

Priva di fondamento è, dunque, la censura della non irrogabilità del licenziamento in presenza di assenze per malattia che non superino il periodo di comporto, così come non fondata è la censura che contesta la congruità del controllo effettuato dal giudice di merito sulle ragioni del licenziamento, in ragione della motivazione sopra richiamata della decisione impugnata.

Né viene in rilievo in questo caso, per le sopra esposta causale del licenziamento, il cd. "repechage", con il quale si esprime l'obbligazione posta a carico di quest'ultimo di adibire il lavoratore licenziato in altre mansioni reperibili in azienda di analogo livello professionale.

Il richiamo alle prove testimoniali effettuato dal ricorrente (teste ...) è parziale e non consente di verificarne la decisività, e si presenta meramente funzionale a sottoporre alla Corte una propria ricostruzioni dei fatti sui quali si chiede un'inammissibile, in sede di legittimità, valutazione di merito.

Quanto alle deduzioni difensive volte a censurare l'inadeguatezza e la carenza della sentenza impugnata rispetto all'esistenza di inequivoci comportamenti discriminatori, occorre rilevare che il ... che non ricorre ex art. 360, n. 4, c.p.c., rinvia all'atto di appello, non riportando i motivi dello stesso nel presente ricorso, con conseguente difetto di autosufficienza della censura, e contesta in modo generico la statuizione della Corte d'Appello circa l'esclusione dal thema decidendum del presente giudizio della valenza persecutoria o discriminatoria del licenziamento, fattispecie che avrebbe dovuto essere ricollegata ad una diversa domanda, di accertamento di mobbing, risultando inammissibili le censure.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Al rigetto del ricorso principale segue l'assorbimento del ricorso incidentale proposto in via condizionata.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale. Assorbito l'incidentale. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cento per esborsi, oltre euro quattromila per compensi professionali, oltre accessori di legge.


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