di Angelo Casella

Il massimo problema esistente oggi in Italia è la disoccupazione di massa, arrivata a livelli incompatibili con l'ordine sociale. Si parla di oltre il 13%, ma non si tiene conto di tutti coloro che hanno rinunciato ad iscriversi alle liste di collocamento, con i quali si arriverebbe probabilmente al 14-16%.

Un problema non solo economico, ma sociale ed umano.

Sul piano umano è noto che la persistente assenza di lavoro è distruttiva della stessa personalità e incide direttamente sulla stabilità psichica individuale.

Su quello sociale implica gravi pericoli di svolte autoritarie, come la storia di ieri ci insegna, facilitando la seduzione di qualche nuovo pifferaio.

Su quello economico, infine, la disoccupazione a questi livelli costituisce una perdita produttiva quantificata in circa 80 miliardi di euro annui. Considerato il contesto internazionale, questa perdita è praticamente irrecuperabile (mantenendo inalterata la struttura industriale attuale).

I provvedimenti adottati dai governi degli ultimi trent'anni, non solo ignorano del tutto questa situazione ma l'hanno aggravata sensibilmente innescando addirittura un processo di crisi economica. La cura del debito non solo non potrà avere successo, ma farà morire il paziente. Gli interessi del debito sono superiori all'incremento del Pil. In termini elementari, se il reddito di una famiglia è inferiore al costo dell'indebitamento e si insiste a mantenerlo, bisogna erodere il capitale, compromettendo il futuro. Ed è ciò che si sta facendo per il sistema-Italia. Si preferisce gratificare gli speculatori finanziari, anziché ristrutturare il debito e rafforzare l'apparato produttivo.

La bandiera adottata dai nostri governi è il liberismo, la cui base ideologica è la massima libertà economica individuale, in contrapposizione all'intervento dello Stato (che però si invoca, quando fa comodo, ad esempio per salvare le banche): si tratta di un indirizzo che è esattamente quello che occorre per deteriorare ulteriormente la situazione.

Il problema dell'occupazione è un problema della collettività e la libera iniziativa dei singoli, mirata all'utile dei singoli stessi, non potrà mai venirne a capo.

E' necessario che sia lo Stato ad occuparsene, così come è avvenuto ai tempi di Roosvelt, recuperando e impiegando quelle risorse che i neoliberisti non vorrebbero mai tirar fuori, nè impiegare a tale scopo.

Tra l'altro, è sempre utile ricordare l'art. 4 della Costituzione per il quale "la Repubblica riconosce a tutti il diritto al lavoro", nonché l'art. 35 che ribadisce il concetto: "La Repubblica tutela il lavoro… cura la formazione e l'elevazione professionale". Senza dimenticare l'art 36 che garantisce "una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e sufficiente ad assicurare (a lui) ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa". Disposizioni tutte mai applicate, ed anzi spesso violate apertamente.

Per uscire dal tritacarne è necessario un mutamento di mentalità che prenda atto della realtà ed induca un cambiamento del credo politico-economico dominante.

E' questa svolta ipotizzabile nel nostro Paese?

Certamente no, fino a quando l'attuale corrotta, compromessa ed inetta classe politica rimarrà al potere, sgrufolando nella mangiatoia messa a sua disposizione.

Fra non molto, forse, si terranno nuove elezioni e si tratterà di una opportunità straordinaria e unica per voltare pagina, per mandare finalmente a casa questa massa di parassiti che in modo delinquenziale ha rovinato il Paese. E' il primo, necessario passo da fare.

Per cucinare correttamente, bisogna pulire la pentola dalle zozze lordure, altrimenti, invece del manicaretto, si produrrà altro laidume.

Per gestire il cambiamento è peraltro preliminare capire bene ciò che non funziona e perché. Quindi, sarà possibile delineare un nuovo sistema istituzionale.

Vediamo quindi le prime cose da chiarire.

Primo punto. Il nostro Paese non ha uno o qualche problema. E' tutto un problema. Nel tempo, si è formato un magma complesso e compatto che non consente soluzioni parziali, ovvero interventi su singoli aspetti od aree. Occorre un approccio globale.

Decenni di assenza di regole idonee hanno generato un intreccio inestricabile di malaffare politico a tutti i livelli, centrali e locali. Nell'esaltazione dell'avidità individuale e di gruppo, si è totalmente accantonato il perseguimento dell'interesse pubblico, favorendo la formazione di clan, cricche, consorterie, corporazioni, confraternite, (disposte anche a compromissioni e collaborazioni con la malavita), che hanno un unico esasperato intento: accumulare ricchezza, mettendo, in vario modo, le mani nelle tasche del cittadini.

Ora, se questo è il prodotto dell'attuale quadro normativo, è ovvio che non basterà cambiare le persone, perché la stessa madre finirà per generare lo stesso mostro.

Occorrerà ridisegnare il sistema delle regole.

E, con esso, di molti modi di pensare ormai dati per acquisiti, di tanti luoghi comuni e di pseudo-verità che, al contrario costituiscono, in toto, delle radicali bestemmie sul piano giuridico, etico, sociale ed economico.

Cominciamo con i "personaggi".

Oggi, si fa politica con i personaggi. Come tanti vanno in chiesa davanti all'icona del santo preferito, per affidargli la soluzione delle proprie pene, così oggi ci si incanta davanti all'immagine del politicante di turno, cui raccomandare la stessa funzione.

Un approccio mediato e favorito dai partiti, che confezionano un bel gruppetto di candidati tra i quali gli elettori "scelgono" il loro santo favorito. E ciò in base ai più paradossali parametri, quali l'aspetto, il tono di voce, la gradevolezza dell'eloquio, e così via.

Gli elettori, insomma, affidano i loro destini, il loro benessere, le loro condizioni di vita a dei perfetti sconosciuti, ed altresì dando loro - a questo fini - carta bianca!

Un fenomeno che fa dubitare fortemente dell'assioma per il quale l'uomo è un animale pensante.

Un assurdo paradosso, quando è di esperienza frequente l'osservazione di chi, dopo decenni di convivenza, confessa di non conoscere ancora il proprio coniuge.

Figuriamoci conoscere un tizio visto (nel contesto che costui medesimo ha scelto) e sentito (con discorsetti accuratamente predisposti) per pochi minuti. Al quale viene però affidata la propria esistenza.

Inaccettabile continuare con questo metodo. Occorre realizzare una selezione oggettiva dei candidati.

Necessario quindi uscire dalla logica del partito con il suo pacchetto di sederi pronti per le poltrone e creare invece una granitica aggregazione di cittadini che vari nuove regole per la scelta delle cariche istituzionali. Regole fondate su riscontri obbiettivi di capacità e competenza.

La politica non ha bisogno di leaders, come la società non ha bisogno di eroi.

E' necessario esattamente il contrario, poiché la loro creazione induce conseguenze catastrofiche legate alla personalizzazione di scelte e decisioni che presuppongono invece la riferibilità a parametri assolutamente oggettivi.

La politica non si fa con le icone, ma con i programmi. La scelta degli elettori deve essere orientata non sui personaggi con il cerone e la dentiera, ovvero di parolai, ma su precisi piani di azione politica. Da valutare in ordine alla effettiva possibilità di migliorare le condizioni di vita dei cittadini.

I partiti vanno riformati. Oggi sono associazioni private non riconosciute, che svolgono funzioni pubbliche. Una contraddizione insensata, ed ancor più se si pensa che vengono finanziati con denaro pubblico (e "pubblico", per chi lo dimentica, significa dei cittadini).

Queste bislacche entità non sono nemmeno trasparenti e democratiche. Sono gruppi chiusi e corrotti che dispongono di un potere enorme, potendo decidere, senza controlli né regole, della vita politica ed economica del Paese. Cioè, e qui sta il paradosso, pilotano e governano l'interesse pubblico, avendo come unico fine il loro proprio interesse di parte : quello di con servare ed estendere il loro potere. Respingendo ogni visione che tale potere possa insidiare, ivi compreso - ovviamente - il perseguimento del bene collettivo che, per definizione, lo osteggia intrinsecamente.

Ed eccoci al quarto punto.

Come un mantra magico privo di senso (ed infatti non è pensato) si sente continuamente ripetere che la maggioranza "deve governare".

Ovvero, che "occorre una maggioranza che governi". E pensare che dietro questa frase ci sono secoli di cultura giuridica. Il povero Rousseau si rivolta nella tomba come una trottola.

Se si riflettesse, si scoprirebbe che - a sostenere questo pseudo-assioma - è solo il sistema dei partiti, cioè la politica per "parti" sociali.

I partiti nacquero come geminazione della lotta di classe. Un partito si costituì per difendere una classe che si riteneva sfruttata da un'altra. Ed un diverso partito gli si contrappose, per coloro che volevano tutelare le posizioni sociali acquisite. E così via altri ancora, in indefinite posizioni intermedie, semi convergenti, parallele, chiaroscurali ecc.

Questo quadro sociale non è trasferibile sul piano del governo della collettività.

Ripuliamo il tavolo per disporvi solo gli elementi essenziali e necessari. In definitiva, dun que, cosa è una dittatura? Dittatura significa la prevalenza della voce (della volontà) di una persona sola (o di un gruppo a sé stante), su quella di tutti gli altri.

E la democrazia, cosa è - in sostanza - se non l'esatto contrario, cioè la realizzazione di un concorso della volontà di tutti, per formare unavolontà comune, che prenda cura del bene comune?

Se questo è, come difficilmente contestabile, consegnare ad una "maggioranza", quale che essa sia, il potere di governare tutta la società, significa consentire ad una parte di essa di perseguire i propri specifici interessi, prendendo decisioni che ignorano il volere (e gli interessi) di tutti gli altri cittadini.

Il "bene comune" rimane nel cassetto.

Il principio di maggioranza si può (e si deve) applicare alla formazione della volontà collettiva, non servirsene per trasformare un organo collegiale in organo "individuale".

Con questa perversione concettuale, quello che si chiama ancor oggi "potere esecutivo", cioè il governo, tale in quanto deve  eseguire  le decisioni del Parlamento (potere legislativo), viene di fatto trasformato nel potere decisionale deliberativo, declassando il parlamento in potere esecutivo.

Ed è di fatto ciò che succede. Il governo prende l'iniziativa delle leggi (che costituzionalmente non gli spetta) e, tramite l'inquadramento partitico dei parlamentari, provvede a farle ratificare dal Parlamento stesso.

Uno stravolgimento dei principi democratici più elementari per i quali, le decisioni devono essere assunte dall'organo collettivo Parlamento, cui esclusivamente spetta il governo della cosa pubblica.

Risultato cui si dovrà pervenire sciogliendo il vincolo di "fedeltà" dell'eletto al partito (che lo ha fatto eleggere e lo foraggia), mediante il sopra descritto diverso metodo di selezione dei candidati.

E' poi del cennato mantra diretta conseguenza, l'immensa corbelleria del "premio di maggioranza", strumento primo dell'esautoramento del Parlamento dalla sua funzione collegiale di governo e massima violazione della volontà degli elettori, che si vedono regalato un Parlamento diverso da quello che hanno scelto e indicato.

E qui arriviamo al punto. Perché l'Italia va allo sfacelo?

Perché i governi, guarda caso, si sono sempre disinteressati del bene comune, di ciò che era necessario e utile per la collettività nazionale, andando invece sempre alla ricerca dei meschini interessi della "maggioranza" (e dei poteri forti cui sono asserviti).

Anche oggi il governo "tecnico" cura soltanto gli interessi di una parte (e per fortuna la meno numerosa) della collettività: la finanza (e l'annessa galassia di speculatori). La quale, poi, essendo sostanzialmente internazionale è, ontologicamente estranea al bene collettivo dell'italica nazione.

Angelo Casella

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