di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 5612 dell'11 Marzo 2014. 

L'ordine professionale e il CCEPS, non possono sanzionare il medico adducendo che lo stesso avrebbe diffuso una pubblicità sui servizi sanitari senza indicare i motivi per cui si ritiene non corretta la pubblicità.

È vero che la diffusione pubblicitaria di servizi del medico e dei suoi collaboratori deve essere improntata alla trasparenza e alla veridicità per garantire la tutela dei pazienti e dell'intera classe professionale di cui il medico fa parte, ma per irrogare la sanzione disciplinare occorre indicarne le ragioni per cui il messaggio pubblicitario non sarebbe trasparente e veritiero.

Nel caso di specie un direttore sanitario era stato condannato alla sospensione disciplinare di sei mesi dall'esercizio professionale, per aver diffuso un messaggio pubblicitario in cui si scriveva "prima visita gratuita, diagnosi, radiografia e preventivi gratuiti".

Il medico proponeva impugnazione davanti alla Commissione Centrale (CCEPS) che si limitava però a ridurre la pena da sei a cinque mesi  affermando anche l'inapplicabilità alle società della liberalizzazione sulla pubblicità di cui alla legge 248/2006 (Decreto Bersani).

Il caso finiva dunque dinanzi a Corte di Cassazione che accolto il ricorso ha indicato il seguente principio di diritto: "l'abrogazione generale contenuta nella L. n. 248 del 2006, art. 2, lett. b, nella quale è sicuramente compresa l'abrogazione delle norme in materia di pubblicità sanitaria, di cui alla L. n.175 del 1992, prescinde dalla natura (individuale, associativa, societaria) dei soggetti rispetto ai quali sarebbe illegittimo, oltre che irragionevole, limitarne la portata all'esercizio della professione in forma individuale, fermo restando che, all'interno del nuovo sistema normativo, nel quale la pubblicità non è soggetta a forme di preventiva autorizzazione, gli Ordini professionali hanno il potere di verifica, al fine dell'applicazione delle sanzioni disciplinari, della trasparenza e della veridicità del messaggio pubblicitario".

Tuttavia, rinviata la decisione nuovamente alla Commissione Centrale, questa non si sarebbe adeguata alla pronuncia della Suprema Corte rinnovando una statuizione simile a quella già emessa in precedenza. L'interessato ricorre allora nuovamente in Cassazione, la quale si pronuncia nella sentenza presa in esame. In base al principio di diritto già enunciato (si veda sopra) la Commissione Centrale avrebbe dovuto procedere ad una valutazione autonoma della portata effettiva della pubblicità incriminata, e non rinviare nuovamente ai rilievi effettuati direttamente dall'Ordine professionale. Il ricorso è accolto e la causa è nuovamente rinviata alla Commissione Centrale per decisione conforme.



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