di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 3026 dell'11 Febbraio 2014. La tutela reale è quella cautela particolare riservata ai dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti ed ha propria radice normativa nell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970). Essa, nel caso in cui venga dimostrata l'illegittimità del licenziamento, obbliga il datore di lavoro a reintegrare il dipendente licenziato, con correlato obbligo di risarcimento del danno. La tutela obbligatoria, al contrario, è applicabile a quelle situazioni in cui mancano i presupposti per la tutela reale e comporta, in caso di licenziamento

illegittimo, la possibilità per il lavoratore licenziato di scegliere tra la reintegrazione e il pagamento di un'indennità. Nel caso di specie un lavoratore ricorre avverso il proprio licenziamento ottenendo pronuncia di illegittimità sia in primo che in secondo grado. Le assenze a seguito delle quali il licenziamento sarebbe stato intimato, secondo i giudici di merito, sarebbero infatti state giustificate, il licenziamento intimato oralmente sarebbe stato nullo e quello successivo, scritto, appunto illegittimo poiché non fondato su giustificato motivo.

Avverso la sentenza d'appello il datore di lavoro propone ricorso in Cassazione, contestando, tra gli altri, l'applicabilità dell'istituto della tutela reale al proprio caso. In particolare egli lamenta l'assenza dei presupposti di fatto richiesti dalla legge. Allo scopo produce, pertanto tardivamente (poiché tale materiale non è stato introdotto in alcuna delle precedenti fasi processuali di merito) copia del libro paga e del libro matricola, senza tuttavia specificarne la portata specifica. Oltre che essere inammissibili in fase di legittimità, tali produzioni non hanno soddisfatto il principio di autosufficienza della prova, secondo la quale l'interessato deve indicare con precisione al giudice quali siano gli elementi, circoscritti nell'ambito delle produzioni stesse, idonei a fondare le proprie pretese. In ogni caso, i poteri officiosi del giudice del lavoro avrebbero dovuto essere ritualmente sollecitati nei precedenti gradi di merito. Il ricorso è rigettato.


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