La Corte Costituzionale (ordinanza n. 36/2002) ha rigettato la questione di legittimità dell'art. 500, commi 2 e 7, del codice di procedura penale
Con ordinanza n. 36/2002 la Corte Costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, commi 2 e 7, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 12 giugno 2001 dal Tribunale di Napoli, il 29 giugno 2001 dal Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di San Benedetto del Tronto, il 6 luglio ed il 3 maggio 2001 dal Tribunale di Ascoli Piceno ed il 9 luglio 2001 dal Tribunale di Bologna ritenendo che il censurato regime di esclusione probatoria frutto di una precisa scelta che il legislatore ha compiuto in attuazione dei principi sanciti dall'art. 111 della Costituzione, non determina alcuna lesione dei parametri costituzionali variamente richiamati dai giudici rimettenti.

Ciò in quanto, in primis, la stessa Costituzione, nel nuovo testo dell'art. 111, prevede espressamente, fra i casi in cui la legge può stabilire che la prova non abbia luogo in contraddittorio, l'ipotesi in cui quest'ultimo non possa realizzarsi "per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita", stabilendo una disciplina sulla formazione della prova che il legislatore è tenuto a rendere effettiva, senza eccedere dai confini ora costituzionalmente imposti.

Inoltre è stato ritenuto inconferente il richiamo al libero convincimento del giudice, così come quello al preteso affievolimento che la disciplina impugnata determinerebbe sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti e della obbligatorietà della azione penale, posto che, per un verso, il libero convincimento del giudice non può che riferirsi alle prove legittimamente formate ed acquisite; e che, sotto altro profilo, il diritto di azione pubblica e privata e il diritto di difesa non possono ritenersi lesi dalle prospettate "limitazioni", le quali si configurano come la naturale e coerente conseguenza di scelte sistematiche, in linea con i principi costituzionali.

Infine la Corte ha giudicato inconsistenti le censure relative alla violazione dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, variamente dedotte, ma prevalentemente incentrate sul profilo che la motivazione, per esser tale, "deve essere coerente e priva di vizi logici e non può sopportare quindi regole che impongano di adottare, invece, contraddizioni" in quanto i limiti probatori relativi alle dichiarazioni lette per le contestazioni non incidono affatto sulla coerenza intrinseca della motivazione che il giudice è chiamato a svolgere in positivo o in negativo sul complesso della deposizione testimoniale, quale risultante all'esito delle contestazioni, e sullo scrutinio in punto di credibilità, posto che, ove così non fosse ed a portare alle estreme conseguenze il ragionamento dei giudici a quibus qualsiasi prova non utilizzabile (perché, ad esempio, assunta contro i divieti previsti dalla legge) comprometterebbe l'obbligo di motivazione, per il sol fatto di essere apparsa "persuasiva" nel foro interno del giudicante.


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