Se una volta stipulato un contratto di compravendita, viene consegnata una cosa diversa da quella pattuita (cd. ipotesi di aliud pro alio), chi ha ricevuto un bene diverso da quello contrattualmente stabilito può svincolarsi dal contratto proponendo una normale azione di risoluzione contrattuale.

In tal caso l'azione è svincolata dai termini e dalle condizioni indicate dall'articolo 1495 del codice civile (norma questa che si riferisce ai vizi della cosa venduta e non all'ipotesi in cui il bene è completamente diverso da quello contrattualmente determinato).

L'ipotesi di aliud pro alio, però, ricorda la Corte di Cassazione (sentenza n. 28419/2013)  ricorre anche "quando la diversità tra la cosa venduta e quella consegnata incide sulla natura e, quindi, sull'individualità, consistenza e destinazione di quest'ultima sì da potersi ritenere che essa appartenga ad un genere del tutto diverso da quello posto a base della decisione dell'acquirente di effettuare l'acquisto, o che presenti difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziali dalle parti [...] facendola degradare in una sottospecie del tutto diversa da quella dedotta in contratto".

Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour, oggetto del contratto di vendita era un toro da monta che poi, nei fatti, non era riuscito a fecondare.

I giudici di merito, avevano respinto la domanda di risoluzione del contratto sostenendo che l'ipotesi giuridica dell'aliud pro alio  sussisterebbe nelle sole ipotesi di consegna di cosa diversa da quella pattuita, pur concedendo che tale diversità possa consistere anche nella mancanza nella merce venduta delle qualità minimali necessarie per un suo qualsiasi utile impiego. 

I giudici del merito erano giunti alla conclusione della non configurabilità di un'ipotesi di aliud pro alio per il fatto che il toro oggetto di vendita restava pur sempre un toro e che, anche se privo di capacità riproduttiva, avrebbe potuto trovare altre utilizzazioni, a cominciare dall'uso alimentare per altri esseri viventi.

Una motivazione che non ha convinto i giudici di piazza Cavour che hanno così cassato la sentenza della corte territoriale.


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