di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, sezione III, sentenza n. 24800 del 5 novembre 2013. Le spese sostenute dal terzo chiamato in causa in garanzia (non rileva se propria o impropria), in caso di soccombenza dell'attore principale, debbono essere rifuse da quest'ultimo, a nulla rilevando che egli non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, salvo che la scelta di chiamare in causa il terzo da parte del convenuto non sia stata palesemente arbitraria. E' il principio stabilito dalla Corte di Cassazione Civile, con la sentenza 5 novembre 2013, n. 24800.

Questa conclusione viene giustificata in talune decisioni col fatto che il lemma "soccombenza" che compare nell'articolo 91, codice procedura civile, deve essere inteso in senso ampio, e quindi comprensivo della posizione di chi, con la propria infondata iniziativa giudiziaria, ha provocato la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto; in altre decisioni invece col rilievo che la condanna alle spese in favore del terzo chiamato non discende dalla soccombenza - mancando un diretto rapporto sostanziale e processuale tra l'attore ed il terzo - bensì dalla responsabilità dell'attore per avere dato luogo, con una infondata pretesa, al giudizio nel quale legittimamente è rimasto coinvolto il terzo. In entrambi i casi ricorrono tutti i presupposti stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità per addossare all'attore soccombente i costi sostenuti dal terzo chiamato in causa. Infatti:

  • la pretesa attorea si è rilevata infondata;

  • il terzo chiamato aveva interesse a partecipare al giudizio di appello, perché in esso era stata rimessa in discussione l'esistenza e l'efficacia della copertura assicurativa;

  • la chiamata in causa del proprio assicuratore della responsabilità civile, da parte del convenuto nel giudizio di danno, non può certo dirsi avventata o arbitraria.


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