La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21356 del 18 settembre 2013, ha affermato che "non può ritenersi che il demansionamento sia legittimato dalla volontà di impedire il licenziamento in quanto mansioni dequalificanti devono essere comunque accettate (e prima ancora proposte..) dal lavoratore".

In particolare la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto da una Banca avverso la sentenza che l'aveva condannata al risarcimento del danno per il demansionamento subito da un proprio dipendente dequalificato al fine - a detta della ricorrente - di evitarne il licenziamento. Certamente - si legge nella sentenza - rientrava nei poteri dell'imprenditore quello di operare la ristrutturazione con la soppressione del CED della Banca; tuttavia dovevano essere affidate al lavoratore ex art. 2103 c.c. mansioni compatibili con il livello di inquadramento e con la professionalità acquisita.

La sentenza della Corte d'appello ha accertato che tale compatibilità non sussiste e ha esaminato tutti gli aspetti dell'avvenuto demansionamento. Non appare dunque condivisibile - secondo i giudici di legittimità - ancorare il disposto mutamento di mansioni all'esercizio dei poteri imprenditoriali, coperti dall'art. 41 della Costituzione, in quanto tali poteri, tra cui rientra anche lo ius variandi, devono rispettare la norma di cui all'art. 2103 cod. civ. palesemente violata nella fattispecie.


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