Nell'attuale contesto storico, sociale ed economico, nonostante il percorso di riforme sinora compiuto e l'inevitabile evoluzione culturale, sopravvive una certa immagine patriarcale della società. Se oggi nella giurisprudenza resistono alcuni crittotipi, tra questi vi è quello secondo cui prevarrebbe l'attribuzione al figlio minore del cognome paterno.

Ma la recente sentenza della Corte di Cassazione sembra inserirsi esattamente in quel cammino giurisprudenziale attraverso cui si cerca di scardinare questo retaggio. Con la sentenza 19 febbraio-27 giugno 2013 n. 16271, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha respinto la richiesta del procuratore generale della Corte d'appello di Venezia favorevole ad apporre il doppio cognome al figlio minore di una coppia di genitori. 

Per la Cassazione, senza riconoscimento contestuale, va apposto il cognome materno. Dunque, al figlio che non viene riconosciuto da entrambi i genitori va dato, nel suo stesso interesse,  il cognome di chi per primo lo ha riconosciuto, dal momento che non può prevalere un regime del "favor" per il patronimico. Il procuratore generale presso la Corte di appello, lamentando la violazione dell'art. 262 c.c. e sostenendo una tesi superata e polverosa,  aveva avanzato la proposta di ricorrere in Cassazione contro il decreto con cui la stessa Corte, chiamata ad esprimere parere in merito al  reclamo avanzato dai genitori di una bambina, si era pronunciata contro il provvedimento con cui veniva disposta l'aggiunta del cognome del padre  - che aveva in un secondo momento effettuato il riconoscimento della figlia naturale -  a quello materno.  

La Corte territoriale, in particolare, aveva annullato il decreto contestato, affermando in sostanza che l'attribuzione del cognome materno, scelto concordemente dai genitori, corrispondesse all'interesse della minore, costituendo, per altro, già un segno distintivo della personalità della stessa.

Quali sono state le motivazioni che hanno guidato la decisione della Suprema corte?  Secondo i magistrati la "corte territoriale sulla base di una valutazione di merito insindacabile in questa sede, supportata da ampia ed esauriente motivazione, esente da incongruenze sul piano logico-giuridico (e di certo non fondata sulla manifestazione della volontà dei genitori, ma incentrata soprattutto sull'interesse della minore), ha correttamente applicato il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, la scelta del giudice non può essere condizionata nè dal "favor" per il patronimico, nè dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'articolo 262 del codice civile
, che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo". La corte di Cassazione ha quindi ritenuto prive di fondatezza le argomentazioni addotte  dal procuratore generale nella sua richiesta, affermando che la Corte territoriale aveva correttamente applicato un principio andato consolidandosi nella giurisprudenza di legittimità. 

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