La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14319 del 6 giugno 2013, ha affermato che "In tema di provvedimento del datore di lavoro a carattere ritorsivo, l'onere della prova su tale natura dell'atto grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione del provvedimento illegittimo. 

Ne consegue che, in sede di giudizio di legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di merito per aver negato carattere ritorsivo al provvedimento datoriale non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia.". 

Nel caso di specie una lavoratrice, licenziata a causa di una riduzione dell'attività della società datrice di lavoro con conseguente necessità di ridurre i costi derivanti da un numero esuberante di dipendenti in coerenza con una netta diminuzione dell'attività amministrativa cui era addetta, riteneva invece di essere stata licenziata per motivi discriminatori e cioè per il suo rifiuto di ridurre l'orario di lavoro. La Suprema Corte ha precisato che la Corte d'Appello, dopo aver richiamato i principi che regolano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

affermati dalla giurisprudenza (secondo cui compete al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro non potendo, invece sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa espressione della libertà di iniziativa economica), ha ritenuto, con valutazione di merito adeguatamente motivata, che il licenziamento della ricorrente, lungi dall'essere stato arbitrariamente adottato, era casualmente collegato ad un'effettiva sopravvenuta riduzione dell'attività aziendale nel settore amministrativo. 

Inoltre la Corte territoriale ha fatto ricorso alle presunzioni al fine di provare come non vi fosse possibilità di altra collocazione della lavoratrice considerata l'offerta fatta alla stessa di un lavoro part-time

e della assenza di nuove assunzioni di personale applicando così correttamente i principi affermati da lla giurisprudenza ("In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile "repechage", mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti"). Sottolineano poi i giudici di legittimità che la Corte di merito ha ritenuto dimostrata da parte della società l'impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni equivalenti sia in quanto la lavoratrice non aveva, per l'attività di controllo tecnico, idonea abilitazione, sia in considerazione del fatto che dopo il licenziamento della lavoratrice la società aveva proceduto alla stipula di contratti di solidarietà tra tutti i dipendenti riducendo l'impegno orario e i costi; che si era proposto alla ricorrente un lavoro part - time che però era stato rifiutato (nella stessa situazione si trovava anche altro dipendente pure esso licenziato per gli stessi motivi); che tutti i posti erano occupati presso le altre sedi e che non vi erano state nuove assunzioni.


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