Come ho già spesso rimarcato, giudicare l'operato di un medico non è semplice. Soprattutto quando in gioco ci sono vite spezzate e strascichi tragici, sia in chi le ha subite (familiari) sia in chi le ha, talvolta involontariamente, create (medici).

Nel caso di questa sentenza (n. 12376/2013, Sesta sezione penale della Cassazione) propenderei per dare completa ragione ai giudici di Cassazione, che nel rifiuto di un medico chirurgo di intervenire in un caso di emergenza hanno ravvisato una negligenza meritevole di condanna. Oltretutto nella fattispecie la negligenza del medico  costata la vita ad un ragazzo minorenne.

Il Tribunale di Perugia, con sentenza del 6/10/2009, aveva riconosciuto colpevole e condannato il medico U.D., accusato di essersi rifiutato di intervenire per un caso di urgenza. Nonostante il professionista, un dirigente medico di primo livello presso la struttura complessa di cardiochirurgia dell'ospedale di S. Maria della Misericordia di Perugia, fosse incaricato del servizio di reperibilità esterna quale primo reperibile, nonostante i ripetuti solleciti telefonici, non aveva reputato necessario intervenire. IN questo modo aveva violato gli art. 328 c.p. e l'art. 17 del C.C.N.L. dei dirigenti medici. La sentenza era stata confermata anche dalla Corte d'Appello di Perugia (sentenza del 25/05/2012).

Il medico si è opposto alla decisione giudiziale ricorrendo in Cassazione dove ha cercato di giustificare la sua scelta di non intervenire puntando sul fatto che, al momento dei fatti, aveva comunque lasciato che fosse un collega, il chirurgo vascolare dott. L. (non specializzato in cardiochirurgia come l'imputato), ad eseguire l'operazione. Sta di fatto però che quell'intervento avrebbe richiesto la sua competenza specialistica.

Tra le motivazioni del ricorso, quello secondo il quale la "Corte territoriale avrebbe dovuto accordare nella specie all'imputato il margine discrezionale di natura tecnica in ordine alla necessità ed urgenza del suo intervento, in conformità all'orientamento della Corte di legittimità che lo esclude solo se esso esuli dal criterio di ragionevolezza tecnica ricavabile dal contesto e dal protocolli medici. In realtà, conclude sul punto il ricorrente, la Corte territoriale nega al sanitario il riconoscimento della discrezionalità tecnica legando l'obbligo non alla effettività della situazione ma a fattori esterni."

Come riportano gli atti della sentenza: "secondo il ricorrente le norme di legge invocate, invece, nulla dicono al riguardo dell'obbligo del sanitario rimandando alla disciplina interna dell'Ente." Così che "la Corte territoriale ha ritenuto integrata la condotta materiale del delitto contestato ritenendo infondata la versione difensiva secondo la quale l'omesso intervento dell'imputato in ospedale fosse giustificato da una precisa scelta clinica, dovuta all'inutilità di procedere sul minore che non si sarebbe salvato."

La Suprema Corte ha ritenuto nulle le motivazioni addotte dalla difesa ed ha pertanto confermato la condanna, precisando che "è orientamento di legittimità consolidato quello secondo il quale il servizio di pronta disponibilità previsto dal d.P.R. 25 giugno 1983 n. 348 è finalizzato ad assicurare una più efficace assistenza sanitaria nelle strutture ospedaliere ed in tal senso è integrativo e non sostitutivo del turno cosiddetto di guardia. Ne consegue che esso presuppone, da un lato, la concreta e permanente reperibilità del sanitario e, dall'altro, l'immediato intervento del medico presso il reparto entro i tempi tecnici concordati e prefissati, una volta che dalla Sede ospedaliera ne sia stata comunque sollecitata la presenza."

Per fortuna la legge è in grado di supplire la mancanza di rispetto dei principi stessi su cui si fonda la professione medica.
Vai al testo della sentenza: Corte di Cassazione, sezione VI, n. 12376 del 15 marzo 2013
Barbara LG Sordi
Email barbaralgsordi@gmail.it

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