Di Antonio Baudi - E' noto che in materia di responsabilità sanitaria è intervenuto, di recente, il D.L. n. 158/2012, in vigore dal 14 settembre 2012, cui ha fatto seguito la Legge di conversione n. 189/2012, in vigore dal successivo 11 novembre. I quesiti, interpretativi ed applicativi, posti dalla riforma in esame sono molteplici e di varia natura. Limitando le osservazioni al tema della responsabilità sanitaria pare chiaro, ad una prima lettura, che il decreto-legge ha riguardato, sia pure con timidezza contenutistica, solo il giudizio civile. 

Lo confermano, in assenza di specificazione letterale (la norma parla di "giudice" senza ulteriori qualificazioni) i richiami al disposto degli artt. 2236 e 1176 del codice civile, afferenti la colpa sanitaria civile in ambito contrattuale. L'uso dell'indicativo, privo di perentorietà, cela il dovere, a carico del giudicante, di tener conto, nella valutazione del profilo colposo dell'addebito, di linee guida e buone pratiche accreditate, dovere, s'intende, colorato di discrezionalità ed ulteriormente condizionato dalla specificità del caso ("nel caso concreto") e dalla incidenza di altri, non meglio esplicitati, criteri ("in particolare"). 

Il tema di fondo è chiaro: l'utilizzo di criteri-guida per la determinazione giurisdizionale circa la sussistenza e la misura della colpa per inadempimento

degli obblighi assunti con l'impegno di prestazione sanitaria. Di più ampio respiro, all'evidenza, il testo della legge di conversione, che incide espressamente nel settore penale ("non risponde penalmente") e che, alle dettate condizioni, depenalizza la responsabilità per colpa lieve, lasciando aperta la configurabilità, a parità di caso, della responsabilità civile, sia pure di natura extracontrattuale, e statuendo la gradualità della misura del risarcimento in funzione di una colpa inerente una condotta tutto sommato "diligente" (si perdoni l'ossimoro) per ritenuta conformità alle buone regole di agire del modello di operatore sanitario, il buon padre di famiglia specificatamente ragguagliato alla natura dell'attività svolta. 

Ad una prima lettura verrebbe da chiedersi perché si debba porre un problema di colpa laddove il medico abbia rispettato le buone regole prudenziali vigenti, con l'immediata riflessione che la norma, così interpretata, sarebbe inutile, essendo ovvia la irresponsabilità per colpa; ed allora perché non porre in termini ancor più pressanti il quesito, posto che sopravvive il profilo di colpa fondante la pretesa risarcitoria civilistica (ma con l'aggravio dell'onere della prova ex 2043), e posto ancora che implicitamente, e per argomento a contrario, resta profilabile la responsabilità per dolo o colpa grave

Tali quesiti, insorgenti nell'immediato, meritano più ampia e meditata riflessione anche perché si intende, in questa sede, affrontare due quesiti preliminari: a) circa la legittimità costituzionale della riforma, quesito che si pone avuto riguardo alla recente sensibilizzazione costituzionale in materia di decretazione d'urgenza ed a fronte di palesi situazioni oggetto di ripetuto rilievo da parte dalla suprema carica dello Stato ; b) circa la portata retroattiva della novella riformatrice. In ordine al primo quesito la problematica è duplice: se sia legittimo il ricorso alla decretazione d'urgenza; se sia legittima una conversione di così vasto, ed innovativo, respiro rispetto al dettato del decreto. 

Il primo quesito va risolto alla luce della motivazione del preambolo del testo normativo, a sostegno della straordinaria necessità ed urgenza di provvedere all'esercizio del potere; in proposito il decreto non solo appare formalmente motivato quanto è sostanzialmente ancorato ad altri provvedimenti urgenti di pressante rilievo politico, in tema di contenimento della spesa pubblica, in specie nella materia sanitaria che grava pesantemente su voci di bilancio, e di ragguaglio rispetto all'efficienza del servizio sanitario per il bene della salute, pacificamente di primario rilevo costituzionale. 

Il secondo quesito, di ordine politico-giuridico, è più ostico, potendo apparire, la legge, più che una conversione, quasi una "sovvertente nuova opera" che ha degradato l'intervento d'urgenza ad occasione per l'esercizio del potere ordinario di fare leggi. Se all'apparenza il problema potrebbe essere prospettabile, anche perché di solito la legge di conversione introduce modifiche incidentali a termini ed a passi della regola di base ormai vigente ed operante nella vita sociale sia pure da poco tempo, occorre avere prudenziale riguardo alla ratio legis e, nello specifico, al tema della professionalità sanitaria, oggettivamente ad alto rischio e condizionata da crescenti difficoltà operative aggravate dall'esasperato ricorso ad accertamenti clinici di sapore "difensivo" e però da garantire a fronte del moltiplicarsi dell'esposizione a responsabilità penale, che accentua l'affanno di una professione di per sé lecita, anzi utile, anzi doverosa al massimo, occorrendo per obbligo penale, gravante sul professionista garante, agire e fare tutto il possibile a fine salvifico del bene della salute e della sopravvivenza stessa. 

Si reputa quindi che ragioni di siffatta preminente portata sociale assumano una valenza tale da legittimare l'ampio esercizio del potere. Il secondo quesito, di stretta portata giuridica, avente ad oggetto la portata retroattiva della disciplina, rinviene un primo, per altro autorevolissimo, conforto nella recentissima pronuncia della Corte di cassazione n. 268/2013 emessa all'udienza del 29 gennaio 2013 da un collegio composto qualificati magistrati di fama consolidata. Il principio enunciato è chiaro: la riforma incide sul merito dei giudizi in corso, quanto al tema della configurabilità della responsabilità per colpa medica di grado lieve, e, appunto perché di rilevo sostanziale nel merito, ha imposto il rinvio al giudice a quo al fine di risolvere problemi prima non rilevanti, nell'ordine logico : 

a) circa la sussistenza di regole prevenzionali pertinenti al caso; 

b) circa l'avvenuto rispetto in concreto di tali regole; 

c) circa il configurabile grado di colpa, che, se di portata lieve, rende il fatto non punibile perché incolpevole. 

Dunque: legiferata depenalizzazione in parte qua e retroazione in applicazione del disposto dell'art. 2 cod. pen. e del sottostante principio del favor rei

 Il pronunciato è aderente al principio codificato ed evocato e per il vero appare di ovvia correttezza. Ci si chiede, ora, se il principio sia di portata tale da travolgere i giudicati di condanna per colpa medica. Il quesito è complementare e sequenziale. Orbene, si è in presenza di una legge di portata speciale, incidente sul regime ordinario da sempre vigente, che, sia pure per la parte rilevante, ha depenalizzato l'illecito. 

L'interrogativo si specifica: occorre chiarire se si sia in presenza di una abrogazione o di una modificazione normativa nella successione tra leggi di pari forza, quesito dirimente, perché l'abrogazione, se sussistente, dovrebbe legittimare la retroazione all'infinito, mentre la modificazione, se sussistente, troverebbe un limite nell'intervenuto giudicato, tangibile per revocazione in punto di fatto ma non per effetto di ius superveniens. 

Rileva in proposito il testo del terzo comma dell'art. 2 citato, il quale stabilisce che "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile". Il principio del favor rei, che non ha riscontro costituzionale (e che va letto in armonia combinata con la regola della irretroattività di cui all'art. 25 Cost.), opera, come noto, con effetto demolitorio totale in presenza di norma abrogatrice, che abbia reso lecito il fatto prima costituente illecito penale, sorgendo invece questione sull'abrogazione parziale, derivante da modifica sulla portata del precetto. 

Del tutto isolato è l'orientamento (cfr. Podo, Successione di leggi penali, in NDI, 1971, XVIII, 643) secondo il quale tale disposizione, precludente l'efficacia retroattiva generalizzata, opererebbe solo limitatamente a modifiche di tipo sanzionatorio o complementare mentre non sarebbe invocabile in presenza di modifiche incidenti sulla struttura dell'illecito, tali da qualificare come lecita una regiudicata prima giustamente definita con affermazione di responsabilità. In effetti, ove sia stata operante una regola di portata generale (la responsabilità penale per colpa medica è stata giudicata, sin dal 1930, data di vigenza del codice Rocco, secondo le disposizioni in materia di colpa valida per "chiunque", professionista e non) ed a siffatto regime abbia fatto seguito una regola speciale, la detta innovazione, proprio perché di portata speciale, patisce la doppia regola, della retroattività se più favorevole e della intangibilità del giudicato. 

La soluzione a fortiori si impone nella situazione in esame avuto riguardo all'insieme dei fattori condizionanti l'operatività della norma, identificati nella precedente condanna definitiva per colpa lieve, nella esistenza di regole cautelari pertinenti, nella loro applicazione alla situazione fattuale giudicata, all'assenza di altri ostacoli sintomatici di colpa. Il raffronto comparativo comporta tipologie accertative verosimilmente irrilevanti alla data del precedente giudizio come, nello specifico, è dato desumere dal caso portato all'attenzione della Corte di Cassazione e prima richiamato. 

Una soluzione diversa imporrebbe di riaprire i giudizi definiti e di effettuare verifiche al di là della portata della sentenza terminativa, implicanti una rivisitazione nel merito non solo sotto il profilo risolutorio quanto sotto la radicale rivalutazione del fatto e delle prove, il che pare indubitabilmente antieconomico, contrario al principio di certezza delle decisioni oltre che al principio di non retroazione in presenza di legge sopravveniente modificativa del precetto penale.

Vedi anche: Riflessioni in tema di responsabilità sanitaria (legge n. 189/2012).

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