La Corte di Cassazione, con sentenza n. 41215 del 22 ottobre 2012, ha rigettato il ricorso proposto dal primario di una nota clinica avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello lo condannava per avere, nell'esercizio delle sue funzioni, arrecato un danno ingiusto compiendo atti e comportamenti di emarginazione nei confronti di un medico dello stesso reparto impedendogli di prestare l'attività chirurgica e spossessando un dirigente dell'Unità operativa, suo primo aiuto e vicario, delle funzioni e competenze a lui spettanti.

Come spiega la Corte "Il primario di un ospedale è tenuto quale pubblico dipendente a prestare la sua opera in conformità delle leggi ed in modo da considerare sempre l'interesse della pubblica amministrazione, in particolare ispirandosi nei rapporti con i colleghi (…) al principio di una assidua e solerte collaborazione. Sussiste, pertanto il reato di abuso di ufficio con violazione di legge, secondo la nuova formulazione dell'articolo 323 C.P., allorché il medesimo ponga in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione dei medici del reparto che non assecondano le proprie scelte".

Nel caso in esame - si legge nella sentenza
- le scelte del primario erano finalizzate ad una gestione autoritaria e 'baronale' della clinica spinta fino al punto di arrivare alla punizione di due qualificatissimi professionisti che venivano emarginati per indurli ad abbandonare la clinica.

La Suprema Corte sottolinea come i giudici di merito abbiano proceduto ad una accurata e approfondita disamina di tutti gli elementi acquisiti, dando conto dei criteri di giudizio e esponendo fatti e valutazioni con motivazione completa e coerente, giuridicamente corretta ed indenne da contraddizioni e vizi logici. "In particolare lucida e coerente risulta la giustificazione sull'accertamento dei reali motivi ritorsivi personali e professionali che indussero l'imputato
ad azioni e atti emarginanti e vessatori nei confronti delle due parti offese, con gravi e negativi effetti sulla loro vita professionale e personale."

Per la configurabilità dell'elemento soggettivo dell'abuso d'ufficio - proseguono i giudici di legittimità - è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e nel caso in esame "le sentenze di merito hanno dato conto dell'intenzionalità del dolo, sottolineando la precisa volontà dell'imputato di colpire nell'attività più importante e qualificante del chirurgo, sospendendone la crescita professionale e procurandogli danno professionale (mancato esercizio della chirurgia, mancata esperienza, mancati contatti e relazioni connessi all'attività chirurgica), alla reputazione e alla vita di relazione (…), alla sfera psicologica, per l'effetto di umiliazione e svalutazione in lui determinato.".

Confermata dalla Suprema Corte anche la responsabilità dell'Azienda ospedaliera in considerazione dell'indiscutibile potere di vigilanza che all'azienda spettava sul suo dipendente, vigilanza che "non risulta essere stata esercitata con efficienza ed efficacia così da impedire la condotta illegittima dell'imputato e, comunque, rimediare con immediatezza agli effetti determinati da tale condotta".

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