La Cassazione, con sentenza 5 settembre 2012, n. 14905, afferma che è legittimo il licenziamento della dipendente che, al termine del periodo di astensione dal lavoro per maternità, non si presenta a riprendere l'attività lavorativa. Come ribadito dalla Corte, infatti, "Nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca a giustificazione del proprio rifiuto di adempiere l'inadempimento
o la mancata offerta di adempiere dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, tra l'inadempimento dell'uno e il precedente inadempimento dell'altro." La lavoratrice, in sede giudiziale, aveva eccepito che il suo rifiuto di riprendere l'attività lavorativa era giustificato dal fatto che l'azienda era inadempiente poichè le doveva delle mensilità arretrate. La Corte di Cassazione specifica che "il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento
, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata." Nel caso di specie - afferma la Suprema Corte - la Corte d'Appello ha "motivatamente escluso che il rifiuto di adempiere la propria prestazione da parte della lavoratrice, concretizzatosi in un periodo di assenza dal lavoro di quaranta giorni dopo la scadenza del termine del periodo di astensione dal lavoro per maternità, potesse considerarsi giustificato e conforme ai principi di correttezza e buona fede a fronte di un inadempimento datoriale che, a quella data, e cioè alla scadenza del termine del periodo di astensione dal lavoro, riguardava una sola mensilità della retribuzione" con la conseguenza che il comportamento della ricorrente risulta sproporzionato all'inadempimento della società. La Corte di Cassazione ha, quindi, accertato la sussistenza della colpa grave nel comportamento della lavoratrice ed ha rigettato il ricorso con la conferma della sentenza impugnata.

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