L'Autrice è SARA DAGNA, che appartiene al foro di Acqui Terme, è un'Amica di Studio Cataldi; propone ai lettori un caso curioso e sui generis di ..."fumo-bio" che offre nel contempo un esempio emblematico di quale proteiforme attività sia quella dell'avvocato. La giovane, sensibile Sara entra nel mondo di una persona semplice, fragile e debole, un giovanissimo che è indagato per coltivazione a fini di spaccio di due sole piantine di cannabis, ancora prive di fiori. Con una speciale metamorfosi, costei si trasforma, nell'affrontare la fattispecie, in un'esperta di botanica; è il passo che mi ha colpito di più quando ho letto il contributo inviatomi dalla Collega, che, poi, ritorna avvocato difensore e scorre la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, in parte avversa e quasi ostile all'imputato
. Rileverete che il caso contempla un accorto mix di senso giuridico e sano senso pratico. L'articolo, la cui chiusa è ... (scusate il gioco di parole!) aperta alle considerazioni dei visitatori del Portale, termina con una riflessione dell'imputato, poi assolto, in ordine al "calo del quantitativo di cannabis realmente oggetto di transazione illecita, con diminuzione della domanda e vanificazione dell'offerta". Buona lettura a Voi lettori di Studio Cataldi e buona fortuna a Sara DAGNA per la sua carriera, che le auguro ricchissima di soddisfazioni: dovete sapere che la Dott.ssa Dagna ha optato, orgogliosamente, per l'apertura di un legal store, di un ...negozio giuridico di strada che ha sede a Montegrosso d'Asti. Con cadenza pressoché semestrale mi invia per mail una sorta di resoconto di quel che le accade, un diario di bordo su come si sta dipanando la sua vita e su quali strani, ma interessantissimi tipi umani, spesso ricchi di storie da raccontare, abbiano solcato l'uscio del negozio giuridico ed io sono estremamente curioso di apprenderlo. Le sue lettere profumano della Val Maira, che ama, e fanno immaginare che se ne stia andando, in compagnia del suo magnifico cane
, di cui ho una foto, per sentieri alla ricerca delle orme del lupo, che si è reintrodotto in quelle aree. Ho pensato a lei il giorno di Natale 2011 quando è purtroppo scomparso Giorgio BOCCA, laureato in giurisprudenza a Torino che poi diviene comandante di banda partigiana della formazione in Valle Maira, nella primavera del 1944, poi, ancora, inviato a stabilire le basi della Brigata Giustizia e Libertà "Rolando Besana" in Valle Varaita, di cui pure diviene il comandante (Paolo M. STORANI). LA DIFESA PENALE DEL PICCOLO COLTIVATORE DI CANNABIS - chiosa a sentenza
del Tribunale Penale di Asti del 2 febbraio 2011 - Sara DAGNA - In data 2 febbraio 2011 il Tribunale di Asti assolveva, ai sensi dell'art. 530, comma 2 c.p.p. "perchè il fatto non sussiste", il mio assistito, imputato per il delitto di cui al D.P.R. 309/1990, così espresso "perchè illecitamente coltivava sostanza stupefacente e cioè due piante di canapa indiana in ... accertato l'11 agosto 2009". Non dimenticherò mai la gratitudine che esprimevano, quel giorno, i suoi occhi. Come non dimenticherò mai la sua richiesta di aiuto quando, nel pomeriggio dell'11 agosto 2009, due giorni prima della sua partenza per le ferie, si recava nel mio studio dicendomi: "la pula mi ha fatto la perquisa a casa e mi ha trovato due piante di ganjia". Seduti uno di fronte all'altra, mi facevo raccontare i fatti, con precisione, in modo che non tralasciasse nulla. Mi informavo sulla sua attività di coltivatore domestico, sul processo di maturazione della pianta, su come ricavare perfettamente la sostanza drogante e infine, sul perchè, se la fumava e perchè la coltivava. "Mi piace fumarla, dopo cena, sul balcone della mia camera, mi rilassa. Per questo ho provato a coltivarla io, così so cosa fumo e non compro quella degli altri". Insomma una coltivazione biologica semplicemente per sé stesso. Avevo ascoltato un'enciclopedia umana in tema di cannabis, per un pomeriggio intero. Ora sapevo ogni dettaglio, dovevo soltanto tradurre tutte quelle parole in una memoria difensiva. La mia difesa doveva evidenziare come non sussistessero i presupposti per l'esercizio dell'azione penale: la coltivazione di due piante di canapa indiana non avrebbe dovuto costituire reato. Cominciavo così a scardinare l'impianto accusatorio. In primis, volevo dimostrare che alla "coltivazione illecita di due piante di canapa indiana", fosse applicabile non tanto l'art. 73, comma 1 del D.P.R. 309/1990, quanto l'art. 75, comma 1. Ovvero pareva possibile far rientrare la coltivazione c.d. domestica (per il solo consumo personale) nell'ambito della detenzione pura e semplice, riconducibile all'espressione "o comunque detiene", presente nel 1 comma dell'art. 75, condotta integrante un illecito amministrativo e non penale. In particolare, la sentenza Cass. n. 17983/2007 riprendeva la distinzione tra la nozione di "coltivazione c.d. domestica" e quella di "coltivazione in senso tecnico". La coltivazione domestica è cioè configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti. Tale condotta rientrerebbe nel più ampio genus della detenzione, con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto all'uso personale della sostanza, essa risulterebbe depenalizzata. Al contrario la coltivazione in senso tecnico (l'unica rilevante ai fini di cui all'art. 73 del D.P.R. 309/1990) comprenderebbe soltanto la coltivazione a livello imprenditoriale, caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta. Contro di me militava però, come spada di Damocle, l'assunto delle Sezioni Unite che, con sentenza n. 28605/2008, avevano ritenuto come "arbitraria la distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale e coltivazione domestica, poiché non legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale". Seguendo questa impostazione, deve ritenersi vietata qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti, fatta eccezione soltanto per quella "per scopi scientifici, sperimentali e didattici", assentibile con autorizzazione ministeriale. Tale pronuncia non considera che la suddetta distinzione risponde ad un canone di rango superiore a quello che è la lettera della legge e cioè ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità della pena, i quali permettono di adeguare la sanzione astratta al disvalore offensivo del fatto concreto, e quindi non sarebbe per nulla arbitraria, ma piuttosto rispettosa dei valori del nostro Stato di Diritto. Cominciavo così a studiarmi il caso di specie. L'indagato, 20 anni, incensurato, durante la perquisizione presso la propria abitazione, faceva presente agli operatori di detenere sul proprio balcone due piante di canapa indiana: l'una alta circa 35 cm, l'altra 8 cm, entrambe prive di infiorescenze. Tale circostanza era la chiave che mi avrebbe aperto direttamente la porta dell'assoluzione. Così mettevo a frutto gli insegnamenti del mio assistito: i preparati psicoattivi come l'hashish e la marijuana sono costituiti soltanto dalla resina e dalle infiorescenze femminili. La canapa indica è una pianta dioica, cioè con individui maschi e individui femmine che si differenziano alla fioritura: ciò significa che per far sì che la pianta "femmina" produca dei frutti e dei semi, dai quali ottenere il principio stupefacente, è indispensabile la presenza di una pianta "maschio" impollinatore, cioè che possieda fiori maschili in grado di produrre il polline. Dopo il rilascio del polline la pianta maschio ha finito il suo ciclo e muore. La femmina invece continua il suo sviluppo fino a quando il seme è completamente maturo e, se lasciata libera di svolgere per intero il suo ciclo naturale, rilascia i suoi semi al terreno, che a loro volta produrranno altre piantine. Giungevo così a questa conclusione: le piantine del mio assistito, essendo senza infiorescenze, risultavano prive di offensività concreta, poiché non si era ancora in grado di sapere se si fosse trattato una pianta "maschio" ed una pianta "femmina", condizione necessaria per ottenere il THC. Tornavo quindi alla fattispecie astratta, secondo un procedimento "sussultorio" di sussunzione. La condotta di coltivazione di piante stupefacenti integra un reato di pericolo presunto. La pericolosità di tale condotta si correla alle esigenze di tutela della "salute collettiva", la quale è bene giuridico primario, che legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto. Ai fini tuttavia del rispetto del principio di offensività, si impone l'obbligo, in ogni caso, da parte del giudice di merito, di accertare la pericolosità reale della condotta incriminata. Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile ex art. 49 c.p. Ne deriva quindi che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio "la salute collettiva", il giudice di merito deve escludere l'offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile. In definitiva, alla luce di tali considerazioni, il mio assistito doveva essere assolto. Tale soluzione ermeneutica rispondeva e rispettava non solo il principio di necessaria offensività secondo quella che è la concezione realistica del reato, ma anche quelli di ragionevolezza e di proporzionalità nell'applicazione della pena. Diversamente concludendo, l'indagato di soli 20 anni, incensurato, il quale ha mostrato agli inquirenti di detenere sul proprio balcone di casa 2 piantine di canapa indiana, piccole e non ancora in grado di produrre sostanza stupefacente, si sarebbe trovato imputato, secondo l'interpretazione delle S.U., di una coltivazione ex art. 73, comma 1 D.P.R., al pari di un qualsiasi altro "coltivatore-spacciatore". Se questa non è violazione dell'art. 3 della nostra Carta Costituzionale! Diversamente argomentando, non si sarebbe rilevato il concreto disvalore del fatto, ossia che nella fattispecie, la sostanza stupefacente era del tutto inesistente in rerum natura, con il corollario logico-deduttivo della necessaria ammissibilità del reato impossibile ex art. 49 c.p., a causa dell'inesistenza dell'oggetto del reato, il quale a sua volta, rende l'evento pericoloso o dannoso impossibile in termini di assolutezza e di attualità. Dalla mia parte, peraltro, registravo la sentenza del 14.1.2009 n. 1222, con la quale la Suprema Corte affermava il principio per cui "coltivare piantine di cannabis non integra il reato previsto dall'art. 73 del D.P.R. 309/1990, fino a quando le piante non sono giunte a maturazione ...in concreto non è rilevabile e quindi non è suscettibile dell'accertamento chiesto al giudice, l'effetto stupefacente in una pianta il cui ciclo non si è completato e che quindi non ha prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza di principi attivi". Fu così che il mio assistito venne assolto. So che dopo non ha mai più messo alla prova il suo pollice verde in tema di cannabis, ma mi ha lasciato queste considerazioni, condivisibili o meno, ma pur sempre da valutare: la coltivazione-domestica o per uso personale, ovvero la produzione di sostanza stupefacente solo per se stessi e non per altri, non arrecando pericolo alla "salute pubblica", così come richiesto dal reato, potrebbe paradossalmente porre un "freno" al vero e proprio mercato illegale di spaccio. O meglio, la coltivazione entro termini quantitativi precisi, idonei cioè a non creare equivoci di sorta, potrebbe invero concretare un fenomeno di erosione dall'interno della richiesta di stupefacente nell'ambito del mercato illecito, sicché l'assuntore di cannabis potrebbe soddisfare il proprio vizio in maniera autonoma, non finanziando attività di criminalità organizzata. E' indubbio certo che la coltivazione determini una teorica funzione accrescitiva del quantitativo di stupefacente leggero in circolazione, ma è altrettanto indubbio che la coltivazione ad uso personale, in concreto, diminuisce i soggetti che si approcciano al mercato illegale della droga. Paradossalmente è vero che a fronte di un aumento teorico del quantum di cannabis potenzialmente prodotto ad uso personale, si addiviene ad un calo del quantitativo di cannabis realmente oggetto di transazione illecita, con diminuzione della domanda e vanificazione dell'offerta. Sul punto, però, lascio a voi la parola. -SARA DAGNA-
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