Letture & pensieri

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Autonomie territoriali e interesse nazionale:

 un tormentato compromesso

(di Valeria Zatti)

 

So bene che a voler parlare di "interesse nazionale" e di "particolarismi territoriali" ci si addentra in un terreno instabile e che la contraddizione è implicita nelle stesse definizioni di partenza: da un lato si mira a salvaguardare "l'universale", dall'altro a rivendicare la propria identità. E' subito evidente che il contrasto di fondo è insanabile a meno che non si accetti di pervenire a delle formule di compromesso, che tentino un bilanciamento fra opposti principi ed esigenze. Dinanzi alle sempre più incalzanti "correnti autonomistiche", dobbiamo porci una domanda: potrà, ancora una volta, l'"interesse nazionale" costituire un limite all'autonomia delle Regioni?
Il titolo V della nostra Costituzione, dedicato a Regioni, Province e Comuni, è stato oggetto, negli ultimi anni, di vari progetti di riforma, tra entusiasmi e accese polemiche. A seguito degli sforzi compiuti, a livello politico, per trovare un compromesso, il testo attualmente in vigore è quello risultante dalle novelle introdotte con la legge costituzionale del 2001 (in G.U. 12/03/2001, n. 59). Le modifiche apportate consacrano, anche a livello costituzionale, le tendenze autonomistiche che, finora, erano state perseguite solo con leggi ordinarie (in particolare attraverso le ormai famigerate leggi Bassanini) facendo parlare la dottrina di "federalismo a costituzione invariata". Ma, come ogni formula di compromesso, la riforma ha inserito nella Carta Costituzionale espressioni (volutamente) ambigue e clausole fin troppo "generiche" e "pericolose" per la tanto agognata autonomia delle Regioni italiane; quest'ultima è stata riconosciuta "sulla carta" fin dall'originario disegno del Costituente del '47 e, tuttavia, in vario modo ridotta nella prassi costituzionale. Notevoli ambiti di autonomia, infatti, erano stati attribuiti alle Regioni già con la prima formulazione della Costituzione repubblicana, ossia nel momento stesso in cui venivano introdotte al fianco delle Province e Comuni. Mentre questi ultimi erano realtà ben radicate sul territorio italiano fin dai tempi di Dante Alighieri, le Regioni vennero introdotte in modo "convenzionale" ossia senza che a tali nuove articolazioni corrispondessero delle identità ben delineate dal punto di vista storico-culturale e, ancor meno, delle strutture idonee a renderle operative "in prima persona". Fu così che le Regioni italiane, a parte quelle a statuto speciale, sono rimaste un "fantasma" finchè la legge del '70 (l. n. 281/1970) ha dato vita a quella "lettera morta". Ma le neonate Regioni non erano ancora dotate di quell'autonomia politica necessaria per resistere agli "assalti" dello Stato, pronto a sfruttare abilmente quelle espressioni generiche e formule ambigue che hanno prestato il fianco a molteplici forzature del dettato costituzionale.
Tra le ampie clausole di cui il Governo centrale si è servito per spogliare le Regioni delle competenze che le venivano riconosciute già dal '47, sicuramente tra le più utilizzate è quella dell'"interesse nazionale". In base al combinato disposto degli artt. 117 e 127 Cost., secondo la formulazione precedente rispetto alla riforma del 2001, le leggi regionali non potevano porsi in contrasto con l'interesse nazionale altrimenti il Governo della Repubblica avrebbe potuto promuovere la questione di merito davanti alle Camere. Il suddetto limite, dunque, nel disegno originario del Costituente, avrebbe dovuto operare in via eventuale e successiva rispetto all'emanazione della legge regionale. Il Parlamento, però, ha pensato bene di escogitare uno stratagemma per rendere operante tale limite a priori, ossia già nel momento della ripartizione delle competenze, attraverso la tecnica c.d. "del ritaglio". Lo Stato si è "ritagliato", appunto, dei settori di competenza nell'ambito delle materie elencate nell'art. 117 Cost. (vecchia formulazione), adducendo che l'interesse nazionale ed esigenze di unità imponevano una legislazione uniforme su tutto il territorio. E' stato in base a tali presunte istanze unitarie che lo Stato è andato ben oltre la mera individuazione di "principi fondamentali" ed è giunto ad emanare Lui stesso la normativa di dettaglio anche nelle materie che la Costituzione riservava alla legislazione regionale; si è giunti, addirittura, a considerare normativa "di principio" la legge statale che, in materia di caccia, ha prescritto perfino il tipo di cartucce utilizzabili!
Ed è sempre invocando la clausola, tanto elastica quanto ambigua dell'interesse nazionale che la Corte Costituzionale ha considerato legittima la sostituzione dello Stato alle Regioni eventualmente inadempienti rispetto all'obbligo di dare attuazione alla normativa di fonte statale. Il giudice di legittimità, infatti, dopo aver avallato in più occasioni tale prassi, ha puntualizzato (sentenza 177/1988) alcune condizioni che lo Stato deve rispettare per poter esercitare tali poteri sostitutivi e surrogatori: in primis la Corte precisa che l'inattività della Regione deve generare il pericolo di una lesione (per l'appunto) dell'interesse nazionale.
Un altro espediente di cui si è servito il Governo centrale per ridurre drasticamente gli spazi di autonomia delle Regioni, che venivano riconosciuti, si badi bene, già nell'assetto costituzionale del '47, è stato quello di riservare, in capo allo Stato, la cd. "funzione di indirizzo e coordinamento"; in virtù di tale strumento, poteva invadere le sfere di competenza che la Costituzione riservava alle Regioni (art. 117 vecchia formulazione) dettando norme non solo con legge, ma perfino con atti amministrativi, con ciò realizzando un ulteriore "strappo" alla Carta fondamentale, che prevede, invece, una riserva di legge in materia di principi fondamentali cui dovranno uniformarsi le Regioni. Ancora una volta la Corte Costituzionale ha manifestato il suo atteggiamento tendenzialmente antiregionalista: in varie sentenze degli anni '70, difatti, ha considerato la funzione di indirizzo e coordinamento come fondata direttamente in Costituzione, in particolare nell'art. 5 che sancisce l'unità e indivisibilità della Repubblica.
E la situazione attuale? La legge costituzionale del 2001 ha riformulato ovvero abrogato la maggior parte degli articoli che la Carta fondamentale dedica agli enti territoriali al fine di potenziare l'autonomia di questi ultimi; ma è stata davvero fatta "piazza pulita" dei trabocchetti e delle scappatoie attraverso i quali lo Stato, finora, ha violato le prerogative delle Regioni? E non ne sono stati, per caso, introdotti dei nuovi, attraverso le formule ambigue che, come già notato, sono tanto care ai politici per raggiungere soluzioni di compromesso su temi particolarmente delicati e dibattuti come quello della forma di Stato?
Per provare a rispondere a questi interrogativi, che vanno dritti al cuore delle prospettive imminenti del nostro Paese, in bilico fra regionalismo e federalismo, è opportuno, innanzitutto, vedere che fine ha fatto il limite, tanto calorosamente invocato dallo Stato e dalla Corte Costituzionale, dell'interesse nazionale. La legge costituzionale del 2001 ha modificato, fra gli altri, proprio gli artt. 117 e 127 Cost. prevedendo l'obbligo della legislazione regionale di rispettare la Costituzione, i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, ma non è più menzionato l'interesse nazionale; quest'ultimo, dunque, è certamente scomparso come limite di merito. E', però, davvero sparito del tutto dalla scena o, piuttosto, non fa ancora capolino sotto le mutate vesti di limite "di legittimità"?
La dottrina, nei primi commenti successivi alla riforma, da più parti, ritiene che quella clausola generale è ancora rintracciabile nella nostra Costituzione e invoca, a tal proposito, diverse norme, alcune vecchie, altre neointrodotte. Alcuni autori ritengono che l'interesse nazionale sia insito nei principi di unità e indivisibilità consacrati nell'art. 5 Cost., in nome dei quali il Governo centrale potrebbe intervenire ogniqualvolta una normativa disomogenea, tra le varie Regioni, rischierebbe di compromettere le istanze unitarie. Altra dottrina ritiene che le esigenze di salvaguardia di interessi ultraregionali sarebbero insite nell'attribuzione della potestà legislativa in via esclusiva allo Stato in relazione a materie che, per la loro ampiezza, sono state definite "competenze funzionali". Si fa riferimento, in particolare alla lettera m) del secondo comma dell'art. 117 (nuova formulazione) inerente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; si è, dunque, palesata la necessità di assicurare degli standards minimi di tutela nei settori che potremmo definire come quelli tipici d'intervento dello Stato sociale di diritto (o Welfare State per dirla all'inglese).
Altri autori sostengono che il limite di legittimità dell'interesse nazionale farebbe capolino nel nuovo art. 120, ove, al secondo comma, prevede che il Governo possa sostituirsi ad organi delle Regioni e degli enti locali in determinate ipotesi, tra le quali, quelle del "pericolo grave per la sicurezza e l'incolumità pubblica" ovvero "quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica". Ecco che, eliminata la clausola generica dell'interesse nazionale, sono state introdotte espressioni che sembrano ancor più vaghe e suscettibili di trasformarsi in altrettanti trampolini di lancio per le "incursioni" dello Stato. Così come non è stato sufficiente riconoscere autonomia alle Regioni "sulla carta" in passato, anche oggi sussiste il rischio che il disegno del Costituente sia svilito da interpretazioni che svuotino completamente le istanze autonomistiche che si vorrebbero perseguire. Le insidie di cui è disseminato il nuovo titolo V consistono soprattutto nel rischio, decisamente concreto, che le formule dell'unità giuridica o economica e le altre che giustificano l'intervento sostitutivo del Governo vengano interpretate in modo talmente lato da neutralizzare l'ampliamento delle prerogative regionali. Anche una lettura in senso troppo estensivo delle materie elencate al nuovo secondo comma dell'art. 117 Cost., riservate alla competenza esclusiva dello Stato, avrebbe l'effetto "a cascata" di ridurre gli spazi che residuano per la competenza delle Regioni (sia quella concorrente che quella, del tutto nuova per le Regioni a statuto ordinario, esclusiva regionale).
Anche in merito all'esercizio della funzione amministrativa, il riformatore ha, più o meno consapevolmente, disseminato il terreno di mine che rischiano di far saltare le conquiste appena raggiunte. Il vecchio art. 118 Cost. attribuiva la funzione amministrativa alle Regioni, salvi alcuni temperamenti, in tutte le materie per le quali tali enti territoriali si vedevano attribuire la competenza legislativa, ossia quelle elencate nel vecchio art. 117 della Costituzione. In base a tale parallelismo fra le due funzioni, era presente, nelle Carta fondamentale, un criterio di riparto delle competenze, in ambito amministrativo, che potremmo definire tendenzialmente rigido e automatico, quindi, in prima approssimazione, foriero di una certa garanzia per le Regioni. Nel nuovo art. 118 Cost., invece, appare un criterio sicuramente più moderno ma altrettanto elastico e fumoso: il principio di sussidiarietà. Quest'ultimo, di origine comunitaria e già recepito dalla nostra legislazione ordinaria, si propone di spostare le funzioni e i centri di produzione delle norme verso il basso, ossia al livello delle comunità più vicine ai destinatari delle regole stesse e, soprattutto, alle esigenze concrete sentite in un dato settore socio-economico. Il principio della sussidiarietà, tuttavia, accompagnato a quelli dell'adeguatezza e differenziazione, implica che, qualora la funzione non possa essere efficacemente realizzata dal livello territoriale inferiore, essa debba essere attratta dal livello immediatamente superiore, secondo un percorso che tende a risalire verso l'alto. Ed è proprio qui il rischio: chi giudicherà come inadeguato l'intervento degli enti territoriali inferiori? Il livello superiore, e, in ultima istanza, lo Stato stesso! Il pericolo è quindi che, adducendo più o meno reali inadeguatezze di Regioni e di enti locali, Il massimo livello attragga a sé buona parte delle competenze, in modo da far operare il principio di sussidiarietà in senso diametralmente opposto rispetto a quanto si prefiggerebbe, ossia "verso l'alto" anziché "verso il basso". Del resto ciò è quanto puntualmente si è verificato in seno alla stessa comunità europea, ove il principio è stato elaborato, dato che è fenomeno palmare ed incalzante la tendenza dell'Unione Europea ad "accaparrarsi" un numero sempre maggiore di competenze, anche in settori delicati che non si immaginava che gli Stati membri potessero essere, pressati dal processo d'integrazione europeo, disposti a cedere.
Esiste, in definitiva, un mezzo per arginare, in qualche modo, la potenziale invasione del "centro" a scapito dei livelli inferiori?
Nelle realtà federali uno strumento esiste: è la Camera degli Stati federati, che, prendendo parte, in vario modo, alle decisioni dello Stato centrale, tutela, già a livello legislativo, le prerogative dei livelli inferiori. Ma in Italia, nonostante le ricorrenti proposte in tal senso, non esiste una Camera delle Regioni che impedisca iniziative accentratrici o, comunque, invasive degli ambiti riservati agli enti minori.
Lasciando da parte le proposte de iure condendo, non esiste, attualmente, neppure un freno a eventuali, ma assolutamente realistiche, invasioni dello Stato? Almeno un argine, in realtà, è sicuramente previsto: la Corte Costituzionale. Spetterà a quest'ultima, difatti, l'ultima parola in merito alla legittimità o meno di leggi statali che dovessero interpretare le già di per sè numerose materie riservate in via esclusiva allo Stato in modo talmente lato da provocare le ire delle Regioni, costringendole a ricorrere all'estremo rimedio del ricorso alla Consulta. Sarà sempre la Corte Costituzionale che delineerà l'ambito estensivo e i profili operativi dell' "arma a doppio taglio" che abbiamo visto essere il principio di sussidiarietà, così come delle pericolose clausole dell'unità giuridica, dell'unità economica e delle altre formule che ben si prestano a fin troppo facili "approfittamenti" del Governo centrale.
Quello che ci pare doveroso notare, in conclusione, è che, da un lato, resta ferma l'esigenza di garantire una certa uniformità in settori delicati quali quello dei diritti civili e sociali, onde evitare ingiuste sperequazioni sul territorio nazionale; dall'altro lato, però, non sarebbe rispettosa del disegno del riformatore costituzionale una prassi che svuotasse l'ampliamento delle prerogative regionali appena conquistate, attraverso letture "forzate" e strumentalizzate delle espressioni ambigue e dei criteri fin troppo elastici che sembrano aver preso il posto del riferimento all'interesse nazionale (da cui, come abbiamo visto, la nostra Carta costituzionale è stata appena depurata).
Un atteggiamento della Corte Costituzionale che si ostinasse ad avallare gli "straripamenti" dello Stato dall'ambito delle proprie competenze sarebbe, per di più, molto più deprecabile data l'attuale situazione delle Regioni italiane; mentre, infatti, può essere giustificato l'atteggiamento antiregionalista assunto dalla Consulta negli anni '70 - '80, quando gli enti regionali erano appena nati e, quindi, privi di organizzazione e di una marcata autonomia politica, oggi questi ultimi hanno raggiunto uno "spessore" decisamente ragguardevole e che merita di non essere frustrato dalle indebite ingerenze statali alle quali siamo stati abituati...per di più con la "benedizione" della Corte Costituzionale!
 


 

 

 

 

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